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Channel: Canale di Beagle – Pagina 46 – eurasia-rivista.org
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LE CINQUE DITA DI GENGIS KHAN

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Riportiamo in traduzione italiana l’intervista rilasciata dal direttore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” ad Ádám Horváth e pubblicata nel periodico ungherese“Barikád il 2 maggio 2013.

 

 

D. –  In medias res: professore, Lei conosce molto bene la situazione dell’Ungheria. L’Unione Europea va bene per noi oppure no?

R. – L’Ungheria, così come gli altri paesi dell’ex blocco sovietico, dal 1989 fa parte dell’area euroatlantica, egemonizzata dagli Stati Uniti d’America. In modo particolare dopo il suo ingresso nella NATO, essa viene utilizzata in vista degli obiettivi strategici e militari statunitensi. L’Ungheria ha subito, alcuni decenni più tardi, la medesima sorte dei Paesi “liberati” con la seconda guerra mondiale.

 

 

D. – I quali evidentemente godono ancor oggi dei vantaggi derivanti dall’appartenenza ad un’area comune…

R. – Sì, e l’Ungheria si è venuta a trovare in una strana situazione. Nonostante abbia eretto statue ai presidenti degli Stati Uniti, nonostante si sia integrato nella NATO e nella cosiddetta Unione Europea, nonostante abbia corrisposto alle richieste euroatlantiche e liberali, tuttavia questo Paese si trova nel mirino dell’Occidente e sotto le pressioni esercitate dai tecnocrati di Bruxelles e dalle forze atlantiste.

 

 

D. – Secondo Lei, dov’è che ciò appare più evidente?

R. -  In primo luogo sul piano economico. All’Ungheria non è consentito di prendere misure che possano giovare all’indipendenza economica; basti pensare alla questione della tassazione delle multinazionali o al rapporto dello Stato con la banca d’emissione. Ma sono significativi anche gli attacchi che sono stati sferrati, sul piano politico-giuridico, contro la nuova Costituzione ungherese e, per citare un solo esempio, contro l’articolo che definisce la famiglia come comunità di uomo e donna. Si aggiungano le grida allarmistiche circa un “antisemitismo” che sarebbe in continua crescita e la denuncia di presunte discriminazioni nei confronti della cosiddetta “minoranza rom”.

 

 

D. – Secondo Lei, in che misura l’americanismo ha danneggiato Ungheria?

R. –  In grande misura, senza dubbio; tuttavia non si tratta di una devastazione comparabile a quella avvenuta nell’Europa occidentale, dove l’americanismo è l’ideologia egemone da una sessantina d’anni.

 

 

D. – Nei Suoi articoli e nelle Sue interviste, Lei ha spiegato come l’Italia, a causa della sua subordinazione economica e militare agli Stati Uniti d’America, non possa svolgere quel ruolo cui essa è destinata dalla storia e dalla geografia, ruolo di collegamento e di mediazione nei confronti dei Balcani e dei Paesi mediterranei. L’Ungheria si trova in una situazione analoga?

R. – La missione dell’Ungheria, collocata nel cuore dell’Europa centrale, è sempre stata quella di svolgervi un ruolo di organizzazione dello spazio geopolitico e di mediare tra le grandi potenze d’Oriente e d’Occidente. Questo Paese si è trovato continuamente nella necessità di mantenersi in equilibrio tra gl’imperi austriaco, ottomano e russo.

 

 

D. – E attualmente?

R. – Oggi l’Ungheria si trova in uno stato di dipendenza dall’Occidente, per cui le è assegnato un ruolo di frontiera nella zona orientale dell’area euroatlantica. Se desidera il proprio bene, l’Ungheria deve porre termine quanto prima a questa situazione di dipendenza.

 

 

D. – È possibile questo?

R. – È questione di volontà politica. Da quando è alla guida della Russia, il presidente Putin cerca di restaurare il rapporto di unione con le repubbliche ex sovietiche; si vedano, per esempio, i casi della Bielorussia e del Kazakhstan. Di fronte al riemergere della potenza russa come polo alternativo a quello atlantico, l’Occidente ha elaborato il progetto – di cui i Russi percepiscono il carattere aggressivo – di installare postazioni missilistiche nei pressi della frontiera russa. In tal modo l’Ungheria viene nuovamente a trovarsi sulla linea di confine tra l’Occidente e l’Est.

 

 

D. – Com’è che il nostro Paese potrebbe uscire dalla sfera d’interessi dell’Occidente senza ricadere in una condizione di totale dipendenza da una potenza dell’est?

R. – Oggi i Paesi completamente sovrani sono quelli che possiedono dimensioni continentali e dispongono di un’adeguata potenza demografica, industriale e militare, come, per esempio, gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India. La piccola Ungheria, coi suoi dieci milioni di abitanti, non può illudersi di essere un Paese sovrano; è indispensabile che essa si integri in un blocco più grande. Qualora scegliesse di integrarsi nell’area compresa fra l’Asia minore e la Cina, nella quale vivono popoli affini per origine a quello magiaro, l’Ungheria potrebbe diventare un prezioso elemento di raccordo tra l’Europa e l’Asia.

 

 

D. – Qual è la Sua opinione circa la controversia tra finnugristi e turanisti?

R. – Io non sono un sostenitore fanatico della tesi finnugrista, ma è un dato di fatto che sul territorio dell’ex Unione Sovietica vivono popolazioni finniche imparentate con quella magiara. D’altro canto è fuori discussione che gli Ungheresi hanno uno stretto rapporto coi popoli turanici. Essendo unita all’Oriente per via di un duplice legame, l’Ungheria potrebbe integrarsi in un’area di estensione più estesa che non quella dell’Unione Europea.

 

 

D. – Lei trova che da parte dell’attuale governo vi sia una decisione di questo genere?

R. – Da parte del governo Orbán vedo solo un’intenzione concernente una cooperazione economica. È ovvio che ciò non è male, anzi; ma una visita ufficiale ed alcuni contratti economici, come quelli sottoscritti recentemente in Kazakhstan, non sono sufficienti.

 

 

 D. – Quale può essere la soluzione?

R. – La presa del potere da parte di una forza politica che, contrapponendosi alle concezioni liberali, recuperi le tradizioni, ritorni alle radici magiare e nelle relazioni internazionali si orienti verso i popoli affini, non solo per stipulare contratti economici.

 

 

D. – Come vede la situazione dei Balcani, che si trovano nelle nostre vicinanze immediate, dove il futuro può essere immaginato in rapporto all’influenza turca e russa?

R. – Nel corso della storia Turchi e Russi si sono trovati spesso in conflitto tra loro. Negli ultimi anni questa situazione si è normalizzata grazie all’azione di Putin e di Erdogan. Oggi, a causa della situazione siriana, il rapporto è peggiorato. Ma, data l’importanza che la Siria riveste, oltre che per l’Iran, per la Russia stessa (si pensi solo al porto di Tartus), la crisi potrebbe risolversi e le relazioni russo-turche ritornare normali. Ciò si rifletterebbe positivamente anche sui Balcani e sarebbe un ostacolo a ulteriori destabilizzazioni.

 

 

D. – Prescindendo dai Balcani, ritiene importanti le future relazioni tra Russia e Turchia?

R. – Nella maniera più assoluta. L’avvenire dell’Eurasia dipende in larga misura dal modo in cui la Turchia saprà assumere una funzione guida rispetto agli altri popoli turchi e regolare il proprio rapporto con la Russia. Se la teoria di Huntington preconizza lo scontro delle civiltà, io ritengo auspicabile che le culture tradizionali (come quella cristiano-ortodossa e quella musulmana) sappiano instaurare un dialogo costruttivo. È ancora valido il simbolo delle cinque dita della mano, con cui Gengis Khan volle rappresentare l’unità essenziale delle cinque forme tradizionali eurasiatiche.

 

 

D. – In altri termini: le culture tradizionali devono essere solidali tra loro?

R. – Le culture tradizionali non possono contrapporsi nella loro sostanza. Esse possono contrapporsi solo al liberalismo e alla barbarie moderna, che oggi recano principalmente il marchio dell’americanismo. Di fronte a questa minaccia dovrebbero coalizzarsi le grandi religioni, a partire da quella islamica e da quella cristiana, tra le quali esiste una significativa comunanza di valori.

 

 

D. – Secondo Lei, quale sarà l’esito del conflitto siriano?

R. – È importante conoscerne le premesse. Il governo di Assad è l’obiettivo di una sovversione progettata dagli Stati Uniti e dai settari wahabiti al soldo del Qatar e dell’Arabia Saudita, i quali hanno poco o nulla a che fare con l’Islam autentico, tant’è vero che l’Imam Khomeyni li poté bollare con l’etichetta di “Islam americano”. Il tentativo di abbattere l’ordinamento statale è comunque fallito e le forze d’opposizione non sovversive potranno cercare una composizione attraverso le trattative col governo. Ciò non comporta un vantaggio soltanto per il popolo siriano, che ha già sofferto abbastanza, ma è anche negl’interessi della Russia e dell’Iran.

 

 

D. – Torniamo alla politica ungherese. Gábor Vona, presidente del partito Jobbik, ha formulato un nuovo paradigma geopolitico basato su tre pilastri. Primo: “Asse da mare a mare”, cioè dalla Polonia alla Croazia attraverso l’Ungheria. Secondo: “Eurasiatismo invece che euratlantismo”. Terzo: Politica ungherese transfrontaliera non di difesa e di arretramento, ma di avanzamento e di tutela degl’interessi. Lei ritiene che questa concezione contribuisca a comporre un quadro più positivo della politica estera ungherese?

R. – In un articolo apparso in “Eurasia” e intitolato “A oriente, Ungherese!” ho già avuto modo di valutare alcune vedute di Gábor Vona circa la politica estera. Per quanto riguarda il primo punto, un asse polacco-ungherese-croato nell’Europa centrale è pienamente concepibile sotto il profilo geografico, storico, culturale e simbolico. Sul secondo punto, quello relativo alla visione eurasiatista, non è necessario dilungarsi in ulteriori particolari, poiché ne abbiamo già parlato. Infine, per quanto concerne la politica transfrontaliera, posso concepirla solo qualora essa prescinda da ogni elemento sciovinistico. Certo, gli Ungheresi al di là degli attuali confini devono poter godere dei medesimi diritti di cui in Europa sono titolari altre minoranze etniche. Si tratta di un fatto importante, che nessun politico ungherese dovrebbe dimenticare.


CINA: IL MANCATO INCONTRO DI ABBAS E NETANYAHU

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In seguito alle due incursioni aeree israeliani in Siria, che Tel Aviv ha detto di aver effettuato per colpire missili iraniani destinati ai libanesi di Hezbollah, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe ammonito il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, giudicando le incursioni “una minaccia per la stabilità regionale”.

Secondo quanto riferisce il sito DEBKAfile, vicino al Mossad, il presidente Putin avrebbe telefonato di persona a Netanyahu per ricordargli che, in caso di un ulteriore attacco militare alla Siria, la Russia si schiererà accanto alla Siria.

Le agenzie di stampa avevano riferito del colloquio telefonico tra le due autorità, lunedì scorso, ma DEBKAfile spiega che Putin avrebbe addirittura minacciato di “rispondere agli attacchi di Israele” nel caso di un’azione futura ai danni della Siria.

Fonti militari di DEBKAfile rivelano che il presidente russo ha fatto riferimento  a sistemi anti-aria S-300 e alla capacità nucleare 9K720 Iskander, missili di superficie abbastanza precisi da colpire un bersaglio ad una distanza di 280 chilometri.

Putin avrebbe consigliato al primo ministro israeliano di prendere sul serio il suo monito, dal momento che la Russia non permetterà ad alcun paese di rovesciare il governo siriano.

Nel frattempo, il primo ministro Benjamin Netanyahu si trova in Cina per colloqui con le autorità di Pechino.

È la prima visita di un capo di governo israeliano in Cina dopo l’incontro tra Ehud Olmert e Hu Jintao del 2007. Netanyahu ha iniziato la sua visita a Shanghai, centro finanziario della Cina, per poi arrivare in giornata a Pechino, cuore politico del Paese; il primo ministro ha incontrato Li Keqiang, con il quale avrebbe firmato alcuni accordi commerciali.  Obiettivo di Netanyahu è promuovere una maggior cooperazione economica sino-israeliana, una cooperazione reciprocamente vantaggiosa; l’attuale interscambio commerciale tra i due Paesi ammonta a circa 10 miliardi di dollari all’anno. Il primo ministro di Tel Aviv vuole incrementare gli scambi ed incoraggiare maggiori investimenti dalla Cina in Israele. Netanyahu dovrebbe inoltre discutere di questioni regionali in merito all’Iran, alla Siria e all’Egitto. Pechino è uno dei maggiori acquirenti di greggio iraniano, e si è sempre opposta alle sanzioni unilaterali dell’Occidente verso Tehran.

La Cina non ha giocato un ruolo rilevante nel Vicino Oriente, ma si è sempre opposta fortemente a potenziali interventi internazionali in Siria.

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Contestualmente, Pechino ha ospitato il presidente del Anp Mahmud Abbas, in visita dal 5 all’ 8 maggio per questioni politico-economiche; il leader palestinese chiede alle autorità cinesi di usare la propria influenza su Israele per rimuovere gli ostacoli che danneggiano l’economia palestinese e per superare le difficoltà che intralciano il processo di pace.

Abbas avrebbe firmato diversi accordi di cooperazione tecnica e scambio culturale con il presidente Xi Jinping ed il primo ministro Li Keqiang.

La Cina ha riconosciuto lo Stato palestinese nel 1988, quattro anni prima di stabilire rapporti diplomatici con Israele. In occasione dell’incontro con Abbas, Xi Jinping ha avanzato una proposta in quattro punti per la promozione della risoluzione del problema palestinese, sottolineando che la parte cinese sostiene fermamente la giusta causa del popolo palestinese e intende ereditare e sviluppare la cooperazione amichevole tra i due Paesi.

I quattro punti della proposta sono i seguenti:

  1. persistere nella corretta direzione della costituzione dello Stato indipendente della Palestina e della coesistenza pacifica fra Palestina e Israele;
  2. i negoziati devono essere l’unico canale per realizzare la pace fra Palestina e Israele;
  3. perseguire inflessibilmente nel principio di “scambio della terra con la pace” per la normalizzazione dei rapporti;
  4. la comunità internazionale deve fornire un’importante garanzia per la promozione del processo di pace.

 

Non è previsto un incontro tra Mahmud Abbas e Benjamin Netanyahu, anche se il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha affermato che tra gli obiettivi di Pechino vi è appunto quello di agevolare il processo di pace nel Vicino Oriente; la scorsa settimana, il ministro degli Esteri Wang Yi si era detto disponibile ad organizzare un incontro tra i due uomini politici.

SHOCK

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Shock. L’evoluzione del capitalismo globalizzato tra crisi, guerre e declino statunitense
 
Autore: Giacomo Gabellini

 
Descrizione: Fin dal superamento della crisi del 1929, il capitalismo ha costantemente dimostrato un’incredibile capacità d’adattamento e una straordinaria forza plasmatrice che nessun modello economico-sociale precedente ha mai posseduto. Attraverso sporadiche crisi strutturali e ricorrenti crisi congiunturali, il sistema capitalistico ha aggiustato i propri squilibri interni, ridisegnando le scale gerarchiche, stabilendo nuovi rapporti sociali e acuendo le polarizzazioni geopolitiche. Questo libro analizza le fasi attraverso cui il capitalismo è regolarmente riuscito a “cambiare pelle”, adeguandosi alle specifiche necessità del momento, fino ad espandersi a livello planetario nell’ambito del processo di globalizzazione liberista avviato dal perno irradiante statunitense. Viene a galla un quadro profondamente negativo, segnato da disastri e catastrofi che hanno condotto sull’orlo del precipizio non solo la “periferia”, ma anche il cosiddetto “Occidente”, che rappresenta il cuore pulsante di tutto il sistema.
 
Prefazione di Bruno Amoroso; 
Introduzione di Nino Galloni.
 
Prezzo: € 25,00

 

http://www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/store/products/shock/

ALTERFESTIVAL: ECONOMIA E SOVRANITÀ

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Alterfestival: Economia e sovranità

24 e 25 maggio 2013

Urban Center Rovereto (TN)

Alterfestival 2013 è il primo appuntamento di un ciclo di dibattiti in materia economica volto a contrapporre al Pensiero unico dominante la divulgazione di teorie e pensieri di intellettuali ed economisti eterodossi, con particolare riguardo ai temi della macroeconomia e della geopolitica.

Oltre a promuovere un nuovo approccio alle tematiche economiche utilizzando un metodo ed un linguaggio indirizzato alla cittadinanza, l’idea di Alterfestival è quella di ampliare il dibattito approfondendo e stimolando l’analisi critica nei confronti della realtà economica e politica attuale, nonché sulle prospettive di sviluppo future. Lo scopo è quello di offrire spazio e visibilità ai pensieri economici alternativi a quello imperante: per riuscire in questo intento, ogni anno Alterfestival proporrà un tema specifico che funga da leitmotiv dei dibattiti. Per l’anno 2013 il tema prescelto è “Economia e sovranità” invitando i relatori a confrontarsi sul funzionamento di quei meccanismi economici che generano erosione di sovranità di uno Stato, e su come giuridicamente tali meccanismi possano essere limitati o bloccati.

Il festival comincerà ufficialmente venerdì 24 maggio alle 20.30 con un dibattito che vedrà partecipare il giornalista e scrittore Massimo Fini (“Il fatto quotidiano”, “Il Gazzettino”) e Nino Galloni, noto economista già funzionario del Ministero del Tesoro, membro del Comitato scientifico di “Eurasia”. Moderatore della serata sarà il giornalista Andrea Tomasi.

Sabato 25 il programma è più articolato e prevede alle 17.00 presso la libreria “Blu Libri” di Rovereto la presentazione del libro Contro riforme di Ugo Mattei (Torino, 2013). Alle 18.00 presso l’Urban Center il presidente di “Coldiretti” Trento Danilo Merz illustrerà il progetto Km zero che promuove il consumo sostenibile di prodotti del territorio. A corollario di questa iniziativa, Barbara Battistello (tecnologo della Fondazione Edmund Mach, San Michele all’Adige) presenterà il progetto Campagna Amica. Alle 20.30 sarà la volta di Ugo Mattei, noto giurista, prof. Ordinario di Diritto Civile all’Università di Torino, che verrà incalzato dal direttore del “Trentino” Alberto Faustini.

GLI ESTENSI E L’EUROPA DELL’EST

LA NATO È UN’ALLEANZA UTILE ALL’EUROPA? QUALITÀ E QUANTITÀ DEI COSTI MILITARI

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Nell’approfondire le spese e lo sforzo militare di un Paese è possibile incontrare numerose difficoltà e approcci di diverso tipo. In linea generale, essendo l’attività militare fondamentale per la gestione della politica estera e i rapporti internazionali, non è possibile accettare un approccio meramente economicista, basato cioè solo sui bilanci. Sebbene soprattutto in periodi critici da un punto di vista economico e sociale è importante rivedere alcune priorità, non è possibile valutare pro e contro di una gestione militare soltanto attraverso i dati della spesa pubblica. E’ fondamentale invece valutare la qualità di quella spesa; questa evidenza vale per ogni tipo di spesa statale e a maggior ragione per quella militare che non ha un valore esclusivamente materiale, ma comporta scelte strategiche e, a cascata, economiche, sociali, politiche.

La spesa militare italiana secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) è per il 2012 di 26 miliardi di euro, pari all’1,7% del Pil. I dati militari in realtà dovrebbero essere presi con il beneficio del dubbio, altre fonti indicano la spesa reale italiana di circa 17 miliardi di euro, quello però confermato da tutti è il trend sul lungo periodo. Se in Italia i bilanci della difesa sono quindi scesi dal 2% del Pil di circa dieci anni fa, così come sono scesi ovviamente quelli degli Stati periferici europei in crisi (insieme a Roma, Madrid, Atene, Lisbona), siamo di fronte ad una sostanziale conferma per i bilanci dei grandi Paesi centrali europei e un incremento invece per Stati Uniti e Paesi emergenti.

La questione però non è per l’appunto quantitativa, ma qualitativa. La spesa militare è come ogni spesa e forse più di altre necessaria, ma quello che si compie con questo denaro impiegato e investito è il fulcro della questione.

La politica estera italiana ed europea degli ultimi decenni, a parte situazioni di particolare vantaggio come la guerra fredda (essendo l’Italia sulla cortina, in cambio della fedeltà agli Usa venne lasciata libera nello svolgere la politica ne Mediterraneo) non ha brillato particolarmente. Anzi, come possiamo vedere apertamente oggi, ha portato il continente dall’essere un faro e un esempio mondiale, ai margini della geopolitica mondiale. Come è potuto accadere se la spesa comune è più elevata che non in altre aree del pianeta? Incompetenza? Non è questa la spiegazione.

Attraverso la coalizione geopolitica che risponde al nome di Trattato del Nord Atlantico (Nato), viene gestita la politica estera dell’intero continente europeo. Basti pensare che fatta di circa 1750 miliardi di dollari la spesa militare mondiale nel 2012, oltre 1000 miliardi (circa il 57% del totale) è fatto dai bilanci dei membri dell’Alleanza Atlantica. Ma per fare cosa? Chiaramente essendo la guida della Nato stretta in mani statunitensi, che a loro volta rimangono indiscutibilmente la super potenza militare con il 40% delle spese globali (682 miliardi) seguiti ad abissale distanza dalla Cina (166 miliardi), la politica che la Nato segue è affine all’elaborazione strategica e geopolitica nord americana. Ed è qui che si evidenzia il vulnus delle spese militari, non solo in sprechi o esagerazioni: quasi il totale ammontare della spesa militare italiana ed europea è utilizzata per finanziare strategie nord atlantiche che nulla hanno a che vedere con gli interessi del continente.

E non si parla soltanto del mantenimento negli Stati europei di centinaia e centinaia di basi militari Usa/Nato, che sono una spesa accollata alla cittadinanza ospitante (questo vale soprattutto per la Germania o il Giappone), dell’utilizzo che se ne potrebbe fare altrimenti e dei danni economici legati a quelli ambientali e alla salute. E neppure del budget civile Nato per il mantenimento di uffici, burocrazia e simili sempre sulle spalle dei cittadini europei (1).

Proprio l’utilizzo di gran parte della spesa militare per garantire le strategie della Nato, organizzazione che vogliamo approfondire tramite questa analisi, sarebbe come minimo da ridiscutere. Per mantenere il proprio status di super potenza in tempo di crisi, con potenze emergenti dai vertiginosi incrementi di Pil, gli Stati Uniti devono vedersi garantito lo sforzo congiunto degli alleati dell’Alleanza. Per esempio proprio nel 2012 la Nato ha cancellato esborsi per le basi militari degli alleati europei, mantenendo però quelli verso le basi Usa: in questo modo la Nato non contribuisce alle spese delle basi italiane utilizzate per le proprie missioni (per esempio la guerra alla Libia), mentre l’Italia contribuisce alle spese delle basi Usa in Italia.

C’è un termine che torna nella storia dello sviluppo occidentale angloamericano, ossia il fardello, il “burden”: dal “fardello dell’uomo bianco” colonialista, al “burden sharing” condivisione del fardello chiesta da Kennedy per lo sviluppo europeo; oggi più che negli anni passati torna l’interesse statunitense per la condivisione del fardello, l’utilizzo delle spese militari per assicurare il vantaggio su ogni continente alla Nato stessa, di cui si preoccupa anche il segretario generale Rasmussen (2). Ma rientra questo negli interessi italiani ed europei? E inizialmente, che cos’è la Nato e come si rapporta con gli alleati?

Come porsi poi dinanzi alla presenza nel nostro territorio di un centinaio circa di bombe nucleari controllate dagli stessi Stati Uniti, sebbene l’Italia abbia firmato il Trattato di non proliferazione, è uno dei tanti aspetti su cui una riflessione sarebbe d’obbligo, così come sull’utilizzo dello stesso territorio italiano per operazioni militari controproducenti per la stessa Italia.

In un sistema accademico, culturale, politico che non è erroneo definire estremista, nessuno di questi argomenti è mai stato toccato seriamente dai vertici istituzionali. Covano ad un livello inferiore, ma non vengono mai affrontati in quanto la stesso assetto politico è fondato su uno status quo vitale per alcuni poteri. Oggi però la crisi economica ci pone anche davanti a possibilità, sfide o semplicemente necessità, che l’estremismo ideologico non dovrebbe e non potrà contenere. C’è assoluto bisogno per l’Italia e per l’Europa di svincolarsi da strategie controproducenti che vedono nemici nel cuore della massa eurasiatica e che quindi hanno lo scopo di dividerla. E’ assolutamente necessario riavviare il dibattito, per lo meno accademico, sull’utilità e l’opportunità di fornire risorse e uomini a strategie dubbie ed elaborate lontano dal continente europeo.

 

 

*Matteo Pistilli è vice presidente del Cesem e redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.

 

 

 

(1) Per fare un esempio il documento ufficiale Usa del 2004 stimava il contributo italiano agli sforzi statunitensi di circa 2,3 miliardi di euro; stima da considerare residuale in quanto riguarda solamente stime sulle operazioni ufficiali senza prendere in considerazione costi aggiuntivi, costi opportunità e quant’altro.

(2) Se dovessero essere tagliate le spese degli alleati “non saremo in grado di difendere la sicurezza da cui dipendono le nostre società democratiche e le nostre prospere economie” dice nel 2012 ad un Summit Nato; “Rischiamo di avere, a oltre vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un’Europa debole e divisa” confermando che è proprio in Europa l’interesse della coalizione atlantica.

 

 

Questo articolo è la premessa dell’analisi del Cesem “Nato: un’alleanza da ripensare” che è possibile leggere qui: http://www.cese-m.eu/cesem/2013/05/nato-unalleanza-da-ripensare/

 

 

 

SIRIA: VECCHI INGANNI, NUOVI SCENARI

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La questione siriana sta prendendo una via decisamente preoccupante che non  lascia presagire nulla di buono. Non è la prima volta che vediamo uno stato sovrano con un legittimo governo al centro di attacchi fisici od indiretti volti a destabilizzarne l’impianto istituzionale e sociale[1]. Lo spettro di un attacco fisico portato avanti sul territorio siriano era da molto tempo nell’aria, come allo stesso modo aleggia da molto tempo la prospettiva di un attacco contro la Repubblica Islamica dell’Iran. L’invenzione, tutta occidentale, di un “esercito libero siriano” composto perlopiù da traditori, criminali locali e mercenari delle più disparate nazionalità[2], ci porta quantomeno a interrogarci sui “valori” portati avanti da questi loschi individui ben prezzolati. Come per il conflitto in Iraq, abbiamo assistito e assistiamo di continuo a continue pressioni da parte dei media controllati dai gruppi di potere dell’informazione, che esortano alla guerra contro il nemico Bashar Al-Assad con accuse palesemente false[3].

Fin troppo evidente l’accusa portata avanti in questi ultimi mesi, relativa all’impiego di armi chimiche da parte del governo siriano nella repressione dei rivoltosi: è notizia di poco fa che a quanto pare i cosiddetti “ribelli” sarebbero stati gli unici ad impiegare armi chimiche sul territorio siriano; da qui la domanda: se in Siria non sono presenti armi chimiche, almeno in dotazione tra le file dell’esercito regolare, chi ha fornito questi armamenti ai terroristi che agiscono contro lo stato legittimo di Bashar Al-Assad?[4] Per restare ancora più sconcertati bisogna pensare all’attacco portato avanti da Israele allo stato siriano. 48 ore di terribili bombardamenti senza alcuna apparente giustificazione non sono abbastanza per far levare voci di dissenso da alcuna organizzazione per i diritti umani[5]. Di sicuro i danni, per quanto gravi, fatti dall’aviazione bellica israeliana non stanno minimamente scalfendo i risultati portati avanti dalle truppe regolari nelle operazioni di ripristino di sicurezza sulle zone in mano ai ribelli: notizia di poco fa, per esempio, che la zona a sud di Aleppo è stata bonificata dall’attività terroristica è stata sradicata[6]. L’esercito siriano, quanto a combattività, riuscirà sicuramente a tener testa ai gruppi di sovversivi che infestano ancora la nazione siriana; il vero pericolo potrebbe, però, derivare da un attacco via terra portato avanti dall’esercito israeliano con la compiacenza e l’appoggio degli USA e quindi anche con l’avallo dell’ONU.

A questo punto lo scenario sarebbe destinato a complicarsi ulteriormente, dal momento che a fianco della Siria, oltre a Hezbollah, verrebbe trascinato nel bel mezzo del conflitto lo stesso Iran, cioè l’obiettivo di sempre delle democrazie occidentali, che fin dal 1979 hanno inutilmente tentato di impossessarsi nuovamente della nazione dopo la rivoluzione di Khomeini e la cacciata dello Scià al servizio degli stati occidentali. L’attacco alla Siria costituisce probabilmente il pretesto per conquistare nuove zone a livello geostrategico e sostituire governi anti-imperialisti con governi fantoccio collaborazionisti come nel caso delle petromonarchie, come il Qatar[7], vincolate da strettissimi rapporti con USA e l’alleato regionale Israele. Destabilizzando l’intera regione ed inducendo di fatto l’Iran ad un intervento, la cartina geopolitica verrebbe di fatto ridisegnata con un equilibrio a favore degli USA. Siria ed Iran, in questo momento hanno il delicato compito di evitare che si formi una faglia di frattura tra la zona NATO e quella asiatica, a vantaggio degli esportatori della geopolitica del caos. Gli sviluppi dei prossimi mesi potranno forse chiarire la reale direzione e le reali intenzioni degli USA e di Israele, sperando vivamente che non si ripeta uno scenario iracheno amplificato in tutta la regione.

 

 



[6] http://www.statopotenza.eu/7109/le-forze-siriane-alloffensiva-da-damasco-al-mediterraneo
(Per informazioni aggiornate in tempo reale rimandiamo al canale di “Stato & Potenza” su Facebook)

[7] Si veda il libro: “Qatar – l’assolutismo del XXI secolo” di Alessandro Lattanzio http://www.cese-m.eu/cesem/2013/01/qatar-lassolutismo-del-xxi-secolo-nuovo-libro-cesem/

IL REFERENDUM E IL PETROLIO FANNO AUMENTARE LA TENSIONE SULLE ISOLE MALVINE

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Nell’anno del trentunesimo anniversario della guerra anglo-argentina, le Malvinas/Falkland tornano a far discutere i governi di Cameron e Kirchner. Alla decennale rivendicazione argentina sul possesso dell’isola, si aggiungono ora infatti, le modalità di svolgimento e il risultato del referendum tenutosi nella capitale  Domenica 10 e lunedì 11 marzo, che chiedeva alla popolazione di riaffermare o meno la propria volontà di restare sotto il controllo dell’amministrazione britannica. Questo tenutosi, è il secondo referendum sullo status dell’isola, dopo quello del 1986[i] il quale aveva confermato la sovranità britannica sull’isola.

Questa seconda consultazione popolare è stata estesa solo a coloro che vivono sull’isola da almeno 7 anni, e che godono perciò dello status di “isolano”, provocando l’irritazione del governo argentino. I votanti perciò sono dunque scesi a 1973, tutti con passaporto britannico, a fronte di una popolazione di 2563 persone, sicché l’esito della consultazione era scontato.

Dei 1973 aventi diritto, solo 1517 sono stati quelli che hanno esercitato il voto, esprimendo quasi all’unanimità la volontà di continuare a far parte della Gran Bretagna. Sono stati soltanto 3 i voti contrari. Rimanere territorio inglese, infatti, comporta per gli isolani il mantenimento di privilegi che il governo Kirchner non può accordare.

Alcuni importanti settori, come quelli concernenti la politica estera e la difesa, vengono gestiti e coordinati direttamente da Downing Street, con la parziale contropartita dell’esonero dal pagamento delle tasse a Londra.

Le reazioni, all’esito del referendum, non si sono fatte attendere da entrambe le parti. Durissima quella dell’ambasciatrice argentina a Londra, Alicia Castro, che ha definito il referendum “publicity stunt[ii]”, delegittimando di fatto il risultato della consultazione.

Per l’Argentina, il referendum non ha nessun valore legale, così come il suo risultato. Il referendum – continuano fonti diplomatiche vicino alla Casa Rosada – è stato indetto unilateralmente dalla Gran Bretagna, la quale ha estromesso di fatto le Nazioni Unite da ogni processo di supervisione; ecco perché il risultato non può essere accettato.

Il ruolo dell’ONU, nella disputa sulle Isole Malvine, è stato sempre oggetto di controversie tra i due paesi. Infatti l’Argentina – per corroborare le sue rivendicazioni – si avvale di due risoluzioni delle Nazioni Unite[iii]  che, oltre a stabilire l’istituzione di una commissione speciale sulla decolonizzazione di carattere generale, invitano i due paesi a porre fine attraverso un pacifico e risolutore dialogo alla “special and particolar colonial situation in the Falkland Islands[iv]”.

La Gran Bretagna, dal suo canto, ha ribadito sempre con estrema fermezza l’esercizio della propria sovranità sull’isola e la volontà di difendere ad ogni costo e con ogni mezzo il proprio territorio nonché i propri cittadini.

In seguito a ciò, all’inizio dell’anno il parlamento inglese ha deciso di aumentare la presenza militare sull’isola al fine di prevenire qualsiasi mossa argentina[v]. Il Primo Ministro inglese, David Cameron, commentando il risultato della consultazione, ha ribadito che l’Argentina deve rispettare l’esito del referendum e il diritto all’autodeterminazione degli abitanti  delle Falkland: “the most important thing about this results is that we believe in self-determination, and the Falkland Islanders have spoken so clearly about their future, and now the other countries right across the world will respect and revere this very clear result”.

L’Argentina, di contro, non si rassegna all’idea di rinunciare all’isola e cerca in vari modi di puntare i riflettori sulla questione. Anche durante la visita per l’intronizzazione di Jorge Maria Bergoglio, la presidentessa Kirchner ha avanzato la richiesta di intercessione del nuovo Papa, per stimolare un dialogo tra le parti che al momento è in una fase di completo stallo. D’altronde l’ex arcivescovo di Buenos Aires si era sempre dimostrato sensibile alla questione delle Malvine, schierandosi apertamente al fianco delle rivendicazioni argentine.[vi]

E’ innegabile che l’isola sta diventando uno dei più importanti temi al centro della nuova agenda politica argentina. La situazione economica del paese versa in condizioni di estrema instabilità, con l’inflazione che secondo i dati ufficiali del FMI si aggira attorno al 30% e che potrebbe condurre il paese verso pesanti sanzioni internazionali. Dopo il crack finanziario alla fine degli anni ’90 e il caso dei cosiddetti tango bond, il paese ha iniziato una lenta ripresa economica che però ora viene minata sia sul piano interno, con una netta diminuzione dei consumi ,sia sul piano internazionale con i moniti lanciati da Christine Lagarde di nuove e più pesanti sanzioni.

Ecco che allora le Malvine diventano un ottimo pretesto al servizio del governo per ricompattare  l’opinione pubblica interna e il popolo indirizzando tutte le diverse manifestazioni d’insofferenza e di critica verso un nemico esterno comune, la Gran Bretagna. Il tutto viene arricchito dalle recenti scoperte petrolifere nei fondali marittimi dell’isola ad opera della compagnia Rockhopper Exploration[vii].

 

Giacimenti di petrolio alle Malvine

Giacimenti di petrolio alle Malvine




La compagnia inglese infatti è riuscita, tramite diverse esplorazioni, a trovare dei ricchi giacimenti di petrolio nel mare territoriale delle Falkland. La stima effettuata della compagnia sul neonato giacimento petrolifero parla della possibilità di estrarre circa centoventimila barili al giorno a fronte di un investimento complessivo di due miliardi di euro. Di questi tempi un’enormità. La compagnia si dice molto soddisfatta del risultato raggiunto, riuscendo proprio dove altre compagnie petrolifere avevano precedentemente fallito; inoltre non esclude la presenza di ulteriori giacimenti.

Dunque la Gran Bretagna vuole tutelare il suo investimento sulle Falkland sia sotto il punto di vista economico che dal punto di vista strategico, e lo farà con ogni mezzo a sua disposizione. Il controllo dell’isola garantisce un’importante posizione strategica tra l’atlantico e il pacifico nonché un’ottima piattaforma di transito e smistamento per il commercio marittimo.

Una nuova operazione militare è comunque da escludere: nessuna delle parti in causa propende per questa possibilità soprattutto in questo periodo di crisi economica internazionale. Una nuova guerra, infatti, oltre ad avere una forte opposizione dell’opinione pubblica mondiale, avrebbe dei costi che nessuno dei due paesi potrebbe permettersi.

Gli stessi Stati Uniti, storici alleati dell’Inghilterra, preferiscono non prendere una posizione netta e risoluta sulla questione; il segretario di Stato John Kerry riconosce infatti il controllo britannico sia formale che sostanziale sull’isola ma contemporaneamente delega la questione sulla sovranità al dialogo tra Buenos Aires e Londra[viii].

Dal canto suo, la dialettica argentina, seppur molto aspra, ha il compito di rafforzare il governo sul piano interno facendo proprio i classici toni nazionalisti, piuttosto che rappresentare una vera e concreta minaccia per lo status quo dell’isola, che data la  volontà dei suoi abitanti e la sua importanza strategica ed economica rimarrà a lungo sotto il controllo inglese.

 

 

*Enrico Volpini, dottore in Relazioni Internazionali, presso l’università degli Studi di Roma Tre.

 





 


LA TURCHIA AFFONDA NEL “PANTANO SIRIANO” E ABBANDONA LA SUA GENTE NELL’HATAY

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La Procura di Reyhanlı – su disposizione del ministero della Giustizia turco – ha vietato alla stampa di riportare notizie sulle indagini in corso a proposito dell’immane (59 morti) strage avvenuta nella cittadina (60.000 abitanti, più attualmente 25.000 rifugiati o presunti tali siriani) di confine con la Siria. L’ipotesi del coinvolgimento di un gruppuscolo di estrema sinistra inattivo da decenni sembra ben difficilmente accreditabile, ma quello che è certo è che il “pantano siriano” pesantemente incentivato dal governo Erdoğan sta allargandosi alla realtà turca suscitando forti proteste nell’opinione pubblica.

I partiti di opposizione – dal repubblicano CHP al nazionalista MHP al filoislamico SP – hanno chiesto le dimissioni dell’esecutivo, mentre anche da parte del filocurdo BDP si parla di fantasie non credibili a proposito dell’asserito coinvolgimento di Damasco nella strage.

Il fatto è che la vasta area a ridosso della frontiera turco-siriana è stata abbandonata alle milizie armate in lotta contro il governo di Damasco e ai mercenari occidentali e di altra provenienza schierati al loro fianco, talvolta in conflitto fra loro stessi. Da queste parti la sovranità dello Stato turco è solo teorica e di facciata.

La popolazione locale è scesa più volte in piazza per rivendicare il suo diritto a una vita normale e per cercare di opporsi alle bande di tagliagole operative e determinanti nel fronte antisiriano.

Il centro comunitario della provincia di Hatay – un comitato che comprende simpatizzanti dei più svariati partiti, dal CHP al MHP al SP ma anche militanti dello stesso AKP in disaccordo con la linea ufficiale del partito – mette apertamente sotto accusa il sostegno turco ai ribelli siriani: “La gente dice semplicemente di non voler più vedere guerriglieri barbuti da queste parti”, ribadisce Mahir Mansuroğlu, portavoce del comitato, mentre il radicalizzarsi del caos e della barbarie appare sempre più come il pretesto per richiedere – da parte di Erdoğan – un intervento militare occidentale.

Di male in peggio. L’incontro del leader turco con Obama di questi giorni e questo tipo di richiesta (una fase intermedia potrebbe essere, come in Libia, l’instaurazione di una zona d’interdizione aerea)può fare definitivamente precipitare la situazione.

LA COREA DEL NORD METTE ALLA PROVA I LIMITI DELLA TOLLERANZA

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Stando al “London Telegraph”, un appartamento nel blocco residenziale di Dandong, la più grande città cinese sul confine sino-coreano, è stato chiuso dalle autorità cinesi lo scorso mese di marzo. Quell’appartamento è stato definito come un “nodo chiave finanziario nell’apparato delle armi di distruzione di massa della Corea del Nord”. Alcuni organi di informazione sono quasi sicuri che tutto ciò mostri come la Cina non può tollerare ancora a lungo le iniziative belliche della Corea del Nord. Il governo di Pyongyang ha ripetutamente rivendicato iniziative di guerra di recente. In quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e principale vicino della Corea del Nord, le iniziative intraprese dalla Cina nel merito della questione attireranno l’attenzione mondiale, soprattutto dal momento che Pechino ha recentemente imposto alcune sanzioni ai danni della Corea del Nord per punire le sue crescenti azioni ostili verso la Cina e altre iniziative attuate dopo che il leader nordcoreano Kim Jong-un ha assunto il suo incarico, che potrebbero minacciare la pace nella Penisola Coreana.

Pechino ha votato a favore delle sanzioni ONU a marzo, e ha già controllato con solerzia le banche illegali della Corea del Nord in Cina. La Cina ha le sue difficoltà nella risoluzione della questione nordcoreana. Gli Stati Uniti e i loro alleati militari hanno intensificato il loro impiego strategico attorno alla penisola. Tale dispiegamento militare esercita un enorme impatto negativo sugli interessi della Cina in relazione ai temi della sicurezza. Tuttavia, la Cina non può accusare gli Stati Uniti per queste azioni di impiego geostrategico perché, secondo gli Stati Uniti, queste contromisure sono indirizzate contro la Corea del Nord. La Cina dovrebbe dunque redarguire la Corea del Nord per aver messo a rischio la stabilità regionale. Ma la Cina non può interrompere definitivamente il suo sostegno militare alla Corea del Nord come l’Occidente vorrebbe convincerla a fare.

In breve, non possiamo brutalmente “abbandonare” la Corea del Nord. Al di là della natura del regime politico in Corea, la Cina avrà sempre suoi interessi nella penisola in merito ai temi della sicurezza. Pechino ha già riadattato le sue politiche verso la Corea del Nord. Colpendo le sue azioni ostili, che hanno minacciato la pace nella penisola, la Cina ha stabilito avvertimenti e ammonimenti. Le relazioni diplomatiche tra Pechino e Pyongyang hanno raggiunto il loro livello più basso dal 1953. Tuttavia, questo non significa che la Cina vuole abbandonare del tutto la Corea del Nord. Essa non deve considerarsi come uno Stato satellite della Cina. Non è per tanto possibile “abbandonarla”. L’ammonimento e il sanzionamento cinesi contro il vicino sono finalizzati a preservare gli interessi della nostra stessa sicurezza.

In precedenza, la Cina si è sempre dimostrata amichevole nei confronti della Corea del Nord, ricevendo soltanto risposte positive. Il problema odierno è costituto dal fatto che da quando Kim Jong-un è salito al potere, la Cina ha ricevuto dal suo vicino quasi nessuna risposta positiva. Ma anche di fronte a questo, non possiamo trarre la conclusione in base alla quale l’amministrazione di Kim Jong-un non risponderà mai positivamente alla Cina.

Tuttavia, la scelta di non abbandonare la Corea del Nord non può essere ricondotta ad un riconoscimento cinese dello status nucleare della Corea del Nord. La denuclearizzazione è sempre stata uno dei principi della Cina sulla questione nordcoreana. Nessun Paese crede che la Corea del Nord voglia perseguire la pace costruendo un arsenale nucleare. Alcuni analisti hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale se la Cina non ammettesse lo status di nazione nucleare della Corea del Nord e non venisse incontro alle richieste nordcoreane, e Washington poi dovesse inviare segnali di apertura a Pyongyang, una Corea del Nord in possesso di armi nucleari potrebbe esercitare una pressione sulla Cina per ritorsione.

Per quanto mi riguarda, c’è soltanto una possibilità. La sfiducia della Corea del Nord nei confronti degli Stati Uniti è profondamente risaputa, esattamente come la sua dipendenza dalla Cina. Se il regime di Pyongyang chiudesse del tutto le sue relazioni diplomatiche con la Cina e si rivolgesse agli Stati Uniti, sarà continuamente in allarme in relazione alla futura integrità del suo regime. Ad ogni modo, una tale situazione potrebbe realizzarsi sul piano strettamente strategico. La Corea del Nord è stata a lungo un attore in gioco nel confronto tra la Cina e gli Stati Uniti. Possiamo prendere in conto questa possibilità, ma sarà opportuno non preoccuparsi più di tanto a questo proposito.

 

L’articolo è stato compilato dalla redattrice del “Global Times” Shu Meng sulla base di un’intervista a Shi Yinhong, direttore del Centro di Studi Statunitensi presso l’Università Renmin di Pechino.

 

FONTE

Shu Meng, North Korea testing limits of tolerance, “Global Times” del 6/5/2013, p. 11

L’ANOMALIA DEI TRATTATI BILATERALI ITALIA-USA SULLE BASI MILITARI NATO

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L’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO) è un’organizzazione regionale a carattere difensivo(1), nata durante la Guerra Fredda,con il preciso intento di combattere la minaccia sovietica.

Il Trattato istitutivo della Nato, in particolare nell’articolo 9, assegna all’organo politico, il North Atlantic Council (NAC) il compito di esaminare le questioni inerenti al funzionamento del Trattato, ivi inclusa la creazione di organismi ausiliari. Da questi compiti vengono però escluse le installazioni di infrastrutture o comandi alleati, per i quali è necessario un accordo bilaterale con lo Stato membro ospitante.

La Nato ha stipulato accordi in questo senso con la maggior parte dei paesi membri dell’Alleanza. In realtà però il tema degli accordi tra Italia, Stati Uniti e Nato per regolare lo status giuridico delle basi militari è da anni oggetto di un acceso dibattito.

Per la regolazione dei rapporti che intercorrono tra il Trattato istitutivo Nato e le basi militari americane presenti sul territorio, si fa spesso riferimento all’art 3 del Trattato Nato, in quanto si prevede “l’impegno delle parti a sviluppare le loro capacità di difesa, individualmente e congiuntamente, e a prestarsi reciproca assistenza per sviluppare le loro capacità di legittima difesa, individuale e collettiva”(2). Fatta eccezione per questo impegno bilaterale di assistenza, il Trattato Nato non contiene disposizioni precise per quanto riguarda il regime di gestione delle basi. Dall’articolo 3 si evince solo un obbligo di cooperazione, che pertanto non costituisce un obbligo a concedere anche basi.

Spetta quindi all’accordo bilaterale definire diritti e obblighi dello Stato titolare della base e di quello ospitante.

L’ordinamento italiano individua due procedure distinte per la stipulazione di accordi internazionali: la prima in forma solenne e la seconda in forma semplificata.

La prima prevede che l’accordo venga sottoposto al Parlamento (articolo 80 della Costituzione) che deve autorizzare con legge il Presidente della Repubblica alla ratifica (articolo 87 della Costituzione) mediante una legge ad hoc.

La procedura semplificata invece non è disciplinata dalla Costituzione ma è invalsa nella prassi. In questo caso, per l’entrata in vigore dell’accordo, è sufficiente la sua sottoscrizione da parte dei ministri plenipotenziari.

La legge dell’11 dicembre 1984, n.839 inoltre prescrive la pubblicazione degli accordi, inclusi quelli in forma semplificata. Ciò nonostante molti accordi, in particolare quelli riguardanti l’installazione di basi, hanno disatteso la procedura prevista dalla legge, essendo stati stipulati in forma segreta o posti all’attenzione del Parlamento solo una volta stipulati.

Il Trattato fondamentale che disciplina lo status delle basi militari americane in Italia è l’Accordo Bilaterale sulle Infrastrutture (di seguito BIA), stipulato tra Italia e Stati Uniti il 20 Ottobre 1954. Noto anche come “Accordo ombrello”, per l’ampiezza della sue disposizioni, ma la sua caratteristica principale è la sua segretezza, in quanto non fu mai pubblicato.

Si tratta di un accordo redatto in forma semplificata e firmato dall’allora Ministro degli Esteri Pella e dall’Ambasciatrice Usa in Italia Clarice Booth Luce.

La parte centrale dell’accordo stabilisce il tetto massimo delle forze Usa che possono stazionare in Italia. Inoltre esso è corredato di annessi tecnici, relativi alle singole basi. Secondo le disposizioni dell’accordo, le basi vengono concesse agli Stati Uniti solo in uso e quindi non godono di alcuna extraterritorialità. Inoltre devono essere usate esclusivamente nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, a meno di ulteriori accordi specifici con il governo italiano.

Quest’ultima questione al momento della stipula dell’accordo non era particolarmente rilevante, in quanto in piena Guerra Fredda la Nato aveva un ruolo centrale nello scacchiere atlantico. Con la fine della contrapposizione tra i blocchi, la Nato ha però perso il suo ruolo originario e quindi spesso i suoi scopi non coincidono con quelli degli Stati membri. Come può quindi l’Italia impedire che le basi concesse in uso agli Americani vengano utilizzate per scopi che essa non condivide?

La questione dal punto di vista giuridico è piuttosto complessa, in quanto si fonda sul concetto di sovranità territoriale. Infatti, una volta usciti dai confini italiani, truppe e mezzi americani non hanno più nessun vincolo. (3)

L’altro accordo che disciplina la presenza di contingenti militari americani in Italia e l’uso delle basi è il Memorandum d’intesa tra il Ministro della Difesa della Repubblica Italiana e il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, noto come Shell Agreement.

L’accordo è stato sottoscritto il 2 Febbraio 1995 dal sottocapo di Stato Maggiore della Difesa Franco Cervoni e dal Vice Comandante delle Forze armate Statunitensi in Europa, Generale Charles Boyd. Come il precedente, anche questo è un accordo in forma semplificata, rimasto segreto a lungo nonostante la vigenza della legge n.839/1984.

L’accordo venne reso pubblico nel 1999, in seguito alla tragedia del Cermis(4), per decisione dell’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema.

Il memorandum dispone che le strutture delle basi vengano poste sotto il controllo italiano e che il comandante Usa informi preventivamente le autorità italiane su ogni movimento di armi e personale, nonché su ogni inconveniente si verifichi. Ma,nonostante ciò, il pieno controllo sul personale e le operazioni rimane in capo agli Stati Uniti.

Più che le disposizioni dei singoli accordi, il dibattito riguarda la segretezza degli stessi e come la loro particolare natura si possa conciliare con le disposizioni contenute nella Costituzione.

Si potrebbe da una parte affermare che è la stessa Costituzione italiana, agli articoli 11 e 52 a garantire valori quali la sicurezza e la difesa. Tali valori però, benché fondamentali, non possono rendere nullo il principio democratico del controllo parlamentare cui è soggetta la politica estera del governo.

Il secondo aspetto riguarda invece l’uso della base, che dovrebbe essere di carattere difensivo, essendo considerata una bilateralizzazione dell’art 3 del Trattato Nato.

Il reale uso delle basi smentisce questo assunto. Ad esempio, durante il conflitto iracheno venne usata la base di Vicenza, seppur in modo limitato in quanto l’Italia si era dichiarata paese non belligerante.

È chiaro quindi come si renda necessaria una revisione degli accordi che disciplinano l’uso delle basi, e soprattutto delle clausole riguardanti la segretezza degli accordi, alla luce del mutato scacchiere internazionale.

Gli accordi erano infatti stati conclusi nel Secondo dopoguerra, quindi in un contesto politico molto diverso da quello attuale. La revisione deve essere fatta tenendo conto dei mutati rapporti di forza, e facendo attenzione al significato delle Alleanze, NATO in primis, sia delle normative di riferimento.

 

 

 

*Maria Pilar Buzzetti ha conseguito la laurea triennale in Scienze Poltiche presso l’Università Roma tre e attualmente sta terminando la laurea specialistica in Relazioni Internazionali presso la Luiss

 

 

Note:

1 Il Trattato istitutivo della NATO si rifà all’art 51 della Carta Onu, laddove prevede l’uso della forza da parte di uno Stato, a patto che sia in funzione auto-difensiva.

2 North Atlantic Treaty, http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_17120.htm

3 Il territorio su cui si trova la base non è infatti considerato territorio estero,quindi non è prevista alcuna cessione di sovranità territoriale.

4 Il 3 febbraio 1998 un aereo militare statunitense,proveniente dalla base di Aviano,tranciò le funi della funivia del Cermis,causando la morte di 19 persone.

http://photos.state.gov/libraries/italy/217417/pdf/shell.pdf

http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=882

http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=882

 

Questo articolo è presente dell’analisi del Cesem “Nato: un’alleanza da ripensare” che è possibile leggere qui: http://www.cese-m.eu/cesem/2013/05/nato-unalleanza-da-ripensare/

INTERVISTA A SHKELZEN GASHI

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Intervista a cura di Andrea Turi     

 
Vorrei iniziare con le ultime novità circa i rapporti tra la Serbia e il Kosovo. L’accordo tra Belgrado e Pristina è stato firmato sulla base di 15 punti. Qual è lo scenario futuro che prenderà vita in questa situazione? Sembra di essere di fronte a una nuova Republika Srpska.

L’Interim Agreement For Peace and Self-Governance in Kosovo (Rambouillet Agreement, 1999), accettato dalla Delegazione del Kosovo ma non da quella della Serbia, prevedeva che i Serbi del Kosovo avessero un’autonomia all’interno del Kosovo, un’autonomia non-territoriale, solo in altri campi. Il Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement (Martti Ahtisaari’s Proposal, 2007), che è stato accettato dalla Delegazione del Kosovo ma non dalla Delegazione della Serbia, ha rafforzato l’autonomia dei Serbi in Kosovo. Inoltre, la proposta avanzata da Martti Ahtisaari ha creato le basi per l’autonomia territoriale dei Serbi in Kosovo, perché in base a questa proposta le municipalità in cui i Serbi del Kosovo sono in maggioranza hanno il diritto di creare un partenariato o un’associazione e di cooperare con le istituzioni della Serbia e di ricevere da queste aiuto finanziario. Adesso, con il First Agreement of Principles Governing the Normalization of Relations (Brussels’ Agreement 2013), firmato da entrambe le delegazioni, l’autonomia dei Serbi è stata ampliata a campi che non erano inclusi nel Rambouillet Agreement (1999) e nella proposta di Martti Ahtisaari: tribunali, polizia, istituzioni politiche. Le basi per una autonomia dei Serbi in Kosovo è cementata. Quindi, sì, siamo davanti ad una nuova Republika Srpska e se i Serbi in Kosovo sfrutteranno questa opportunità, allora alla fine di questo decennio potranno essere un’entità politica come la Republika Srpska.

 

 

A prima vista, dopo una rapida analisi, si potrebbe avere l’impressione che i “15 punti” si muovano sulle linee del precedente Piano Ahtisaari respinto. In sostanza, che cosa c’è di diverso?

Il piano Ahtisaari offre ai Serbi in Kosovo un più alto livello di autonomia in questi campi: lingua, eduzione, media, sanità, finanze e religione. Pertanto, la piattaforma politica della Serbia non ha demandato ulteriori diritti in questi campi. La Serbia ha richiesto diritti addizionali in tre campi: forze di polizia, tribunali e istituzioni politiche. Per quanto riguarda il campo della polizia, tutte le municipalità in cui i Serbi kosovari sono in maggioranza, stando alla proposta Ahtisaari, hanno il diritto di eleggere il comandante delle stazioni di polizia, mentre una catena di comando unificata per i servizi di polizia dovrebbe essere conservata in tutto il territorio del Kosovo. Pertanto, la piattaforma politica della Serbia chiedeva una polizia autonoma, formalmente parte del Kosovo, che avrebbe dovuto funzionare sotto l’autorità dell’Executive Council of the Community of Serb Municipality in Kosovo. Questo è garantito, più o meno, dall’accordo di Bruxelles. Fino ad ora, le strutture di sicurezza serbe nel nord del Kosovo sono state pagate dal Governo della Serbia, mentre da adesso, saranno pagate dal Governo del Kosovo, perché formalmente appartengono alla Polizia kosovara, ma il loro comandante sarà eletto dalla Comunità delle Municipalità serbe in Kosovo.

In campo giudiziario, stando alle disposizioni del piano Ahtisaari, le municipalità a maggioranza serba, in un certo modo, avevano il diritto di costituire tribunali distrettuali, mentre la piattaforma politica del Kosovo  chiedeva che i tribunali nella regione della Comunità delle municipalità serbe del Kosovo avesse l’autorità di decidere su tutte le tematiche giudiziarie. L’Accordo di Bruxelles dispone che la Corte d’Appello di Pristina stabilirà un quadro di riferimento per trattare con tutte le municipalità kosovare a maggioranza serba, ma dall’altra parte, enfatizza il fatto che le autorità giudiziarie dovranno operare all’interno della cornice legale del Kosovo.

Per quanto riguarda le istituzioni politiche, la proposta di Martti Ahtisaari prevedeva che le municipalità serbe in Kosovo potessero formare una partnership che avrebbe avuto il diritto di cooperare con le istituzioni della Repubblica di Serbia, ma le cui competenze non erano specificate concretamente. La Serbia nella sua piattaforma politica ha affermato che la Comunità della Municipalità Serbe in Kosovo avrebbe dovuto avere la sua Assemblea e il suo Consiglio Esecutivo. Con l’Accordo di Bruxelles, la Comunità delle Municipalità serbe in Kosovo avrà l’Assemblea, il Consiglio Esecutivo e il Presidente. Avrà anche il suo statuto. L’Accordo di Bruxelles è appena il primo accordo, così con i prossimi accordi che saranno raggiunti presto, le competenze della comunità saranno definite più concretamente, non solo nei campi citati in questo accordo ma anche in altri.

 

 

Ora, sarà possibile portare le questioni dalla carta al terreno? Che problemi ci potrebbero essere per l’attuazione dei “15 punti”?

Fondamentalmente ci sono due ostacoli per l’attuazione dell’accordo di Bruxelles: i Serbi del Kosovo e il Movimento Vetëvendosje! (Autodeterminazione!). Sono sicuro che i Serbi del Kosovo saranno neutralizzati dalla Serbia perché dall’implementazione dell’Accordo di Bruxelles dipende l’integrazione della Serbia in Europa. Inoltre, i Serbi kosovari con quest’accordo guadagnano più che gli Albanesi. Inoltre, sono sicuro che il movimento Vetëvendosje! non sarà in grado di fermare l’attuazione dell’Accordo di Bruxelles, ma alle prossime elezioni, l’Accordo di Bruxelles sarà una delle ragioni che influenzeranno la crescita di Vetëvendosje!.

 

 

Con la cosiddetta “normalizzazione” nel nord del Kosovo, la Serbia riconosce “de jure” la sovranità di Pristina, “de jure”, ma non “de facto”. Un punto sicuramente a favore di Belgrado è l’annullamento della disposizione che consente l’associazione di Pristina alle organizzazioni internazionali. Quindi, è l’accordo tra la Serbia e il Kosovo è vantaggioso per entrambi o qualcuno ha guadagnato di più?

È vero che con l’accordo di Bruxelles la Serbia riconosce la legislazione del Kosovo, in particolare per quanto riguarda la polizia, i tribunali, l’organizzazione di elezioni, e così via. Questo è un riconoscimento estremamente implicito della sovranità “de jure” del Kosovo, mentre, d’altro canto, il Kosovo ha riconosciuto esplicitamente l’autonomia dei Serbi in Kosovo, anche con forti competenze. L’Accordo sarebbe stato di comune vantaggio solo se la Serbia avesse riconosciuto esplicitamente l’indipendenza del Kosovo.

Secondo me, il Kosovo dovrebbe dare l’autonomia ai Serbi perché loro hanno sofferto molto dopo il 10 giugno 1999 e specialmente durante le rivolte del 17-18 marzo del 2004, ma la Serbia dovrebbe riconoscere esplicitamente l’indipendenza del Kosovo e gli Albanesi, nei territori in cui i Serbi hanno l’autonomia, dovrebbero avere gli stessi diritti che i Serbi nella Repubblica del Kosovo.

Inoltre, non ci dimentichiamo che la parte Nord del Kosovo è sotto il controllo dei Serbi e della Serbia con il forte sostegno della comunità internazionale perché dopo l’ingresso delle truppe NATO in Kosovo, i membri del KLA hanno ricevuto l’ordine dai propri comandanti di non attraversare il ponte sul fiume Ibar perché, altrimenti, la NATO gli avrebbe sparato.

 

 

Ora, quale è il futuro del Kosovo? Quale sarà l’impatto dell’accordo sulla scena politica del Kosovo?

Il futuro del Kosovo è molto scuro. Il più grande problema del Kosovo, secondo me, è il Primo Ministro Hashim Thaci perché è pronto a firmare qualsiasi cosa gli chieda l’Unione Europea solo per salvare se stesso dalle accuse di crimini di guerra e corruzione. Pertanto, la Serbia ha guadagnato di più con questo accordo grazie al fatto che il Kosovo era rappresentato, in queste negoziazioni, da Hashim Thaci.

Per quanto riguarda, invece, l’impatto dell’accordo sullo scenario politico del Kosovo, sono sicuro che il Partito Democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosoves – PDK) del Primo Ministro, Hashim Thaci, subirà una flessione alle prossime elezioni, mentre il primo partito di opposizione, per numeri, la Lega Democratica del Kosovo (Lidhja Demokratike e Kosoves) subirà un drastico ridimensionamento, e allo stesso tempo, il movimento Vetëvendosje! crescerà.

 

 

Parlando della Grande Albania, qualcosa di fattibile o solo un sogno politico? L’esito delle prossime elezioni albanesi avranno una certa importanza per il futuro del Kosovo?

Per il momento gli Albanesi non sono in una situazione tale da imporre il progetto di unificazione tra il Kosovo e l’Albania. Questo progetto può essere realizzato solo se è nell’interesse della comunità internazionale, o per meglio dire, nell’interesse degli Stati Uniti. Mentre, per quanto riguarda i risultati delle elezioni in Albania, non hanno alcuna importanza per il Kosovo, perché la presa di posizione dei principali partiti politici lì – PD e PS – nei confronti del Kosovo è simile: essi sostengono ogni progetto della comunità internazionale per il Kosovo.

 

 

Qual è la vostra opinione sul lavoro svolto dall’Unione Europea come mediatore? Pensa che abbia mantenuto una posizione neutrale ed equilibrata tra le parti?

L’Unione Europea come mediatore in questo processo non ha preso in considerazione almeno due meritevoli suggerimenti dati da uno dei più diligenti mediatori internazionali nella crisi della ex-Jugoslavia, l’ambasciatore Geert-Hinrich Ahrens, nel suo libro Diplomacy on the Edge: Containment of Ethnic Conflict and the Minorities Working Group of the Conferences on Yugoslavia: 1) gli interlocutori devono essere scelti con cura e quelli che rappresentano interessi criminali devono essere rifiutati, 2) non è soddisfacente raggiungere un risultato attraverso pressioni sul lato più debole nei negoziati.

 

 

Qual è la vostra opinione sul lavoro della comunità internazionale in Kosovo?

In sostanza la comunità internazionale in Kosovo ci ha cambiato l’occupazione. Ora non abbiamo la Serbia, ma abbiamo un’ élite politica criminale, che ha distrutto il Kosovo come fece la Serbia durante gli anni novanta. Una parte considerevole di responsabilità del fatto che abbiamo un’élite politica criminale è dovuta alla comunità internazionale in Kosovo, che ha avuto competenze complete nei settori della polizia e dei tribunali nella regione. Inoltre, la comunità internazionale ha avuto forti prove, ma si è rifiutata di arrestare i malviventi che hanno usurpato la scena politica in Kosovo.

 

 

Com’è che la società civile ha accolto la notizia dell’accordo?

Sfortunatamente, non abbiamo una società civile. Ho l’impressione che, per una parte considerevole della popolazione, sia chiaro che il Kosovo avrebbe potuto ottenere un accordo migliore se non fossimo stati rappresentati da Hashim Thaci.  Ma, non va dimenticato, la maggior parte dei mezzi di comunicazione in Kosovo, tra cui la televisione pubblica, è sotto il controllo del governo.

 

 

Ultima domanda: parafrasando il titolo del libro di Denis MacShane, il Kosovo è ancora importante sullo scacchiere internazionale? Perché? Se no, perché no?

Il Kosovo sarà importante sulla scacchiera internazionale almeno finché l’EU e gli USA non avranno messo la Serbia sotto il loro controllo. L’obiettivo principale degli Accordi di Rambouillet era di mettere sotto controllo della NATO non solo il territorio del Kosovo, ma anche quello di Serbia e Montenegro. Così, il Kosovo è stato utilizzato come pretesto per porre la Serbia e Montenegro sotto controllo NATO. In modo simile, l’UE con l’Accordo di Bruxelles per porre la Serbia sotto il proprio controllo sta usando il Kosovo attraverso la legalizzazione della forte presenza serba in Kosovo. Il Kosovo ha riconosciuto l’autonomia dei Serbi in Kosovo, mentre la Serbia non è stata forzata a riconoscere l’indipendenza del Kosovo.

 

 

 

* Shkelzen Gashi è un politologo kosovaro indipendente. Pubblica frequentemente nella stampa kosovara analizzando fenomeni che caratterizzano la realtà politica del Kosovo oggi. Si occupa in particolar modo della società civile in Kosovo dopo la fine del conflitto del ’99.

PRESENTAZIONE DEL LIBRO “LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN TRA ORDINAMENTO INTERNO E POLITICA INTERNAZIONALE”: EVENTO A ROMA

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Il 15 giugno a Roma verrà presentato il libro “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale”, di Ali Reza Jalali.

Intervengono come relatori all’evento:

  • Giuseppe Aiello (Titolare della casa editrice Irfan Edizioni)
  • Ali Reza Jalali (Autore del libro)
  • Claudio Mutti (Direttore della rivista di geopolitica Eurasia)
  • Ali Puormarjan (Direttore dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della R. I. dell’Iran)

L’evento è organizzato dalla casa editrice Irfan Edizioni, con la collaborazione della rivista di geopolitica Eurasia, l’Associazione Imam Mahdi e l’Istituto Culturale dell’ambasciata iraniana a Roma. Indirizzo: LAB COM, Via Ridolfino Venuti 34/A (Piazza Bologna) Roma (ORE 11). L’ingresso è libero. Vi sarà anche un rinfresco.

 

 

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO

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La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.

Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).

La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.

La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.

Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).

Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.

Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.

Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.

Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

 

 

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

 

 

(1)N. Klein, No Logo, p. 53

(2) http://www.eurasia-rivista.org/il-marchio-statunitense/18674/

STRATEGIA DIPLOMATICA CINESE: LI KEQIANG IN VIAGGIO VERSO L’EUROPA

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Il primo ministro cinese Li Keqiang ha incontrato il presidente pakistano Asif Ali Zardari ad Islamabad, dove si trova per la seconda tappa del suo viaggio diplomatico che durerà nove giorni, inaugurato in India, e che si concluderà in Europa, nella fattispecie in Svizzera ed in Germania.

Li Keqiang incontrerà anche il nuovo primo ministro Nawaz Sharif, leader della Lega Musulmana Pakistana, uscita vincente dalle elezioni dell’ 11 maggio scorso; è stata la prima volta che il Pakistan è andato alle urne dopo un regolare completamento della legislatura, dal momento che, in precedenza, i governi sono stati sempre interrotti da colpi di Stato militari. Notevole è stato l’incremento della partecipazione al voto, tuttavia, sono seguite proteste per presunti brogli.

Il Pakistan attualmente sta affrontando una rilevante crisi economica e registra un alto tasso inflattivo; una maggiore cooperazione sino-pakistana diviene funzionale in tal senso. Per la Cina il Pakistan rappresenta una regione chiave dell’Est asiatico, un canale importante per penetrare nel mondo islamico. Inoltre, Gwadar e i più facili collegamenti coi produttori di idrocarburi consentono a Pechino di aggirare le incertezze che nascono dal “dilemma di Malacca” e dalle tensioni lungo le rotte marittime più trafficate del pianeta.

Il primo ministro Li Keqiang ha assicurato un aumento della cooperazione economica – gli scambi commerciali hanno raggiunto i 12 miliardi di dollari, un incremento del 18% rispetto al 2011 – e di offrire il sostegno necessario affinché il Pakistan possa preservare la propria sovranità ed integrità territoriale.

Il 19 maggio il primo ministro Li ha incontrato il corrispettivo indiano Manmohan Singh.

La scelta dell’India come prima tappa è emblematica se consideriamo le recenti tensioni territoriali; lo scorso aprile Nuova Delhi ha accusato alcune truppe cinesi di aver sconfinato in un’area storicamente contesa.

“Non neghiamo che ci siano problemi tra le due parti – ha dichiarato Li Keqiang – E’ necessario migliorare i meccanismi di confine e renderli più efficienti”.

Obiettivo principale della visita è preservare la pace e la tranquillità, e rafforzare gli interscambi commerciali; i dirigenti dei due Paesi più popolosi del mondo hanno firmato 8 accordi di cooperazione. Il 21 maggio il ministro cinese ha presenziato alla cena del vertice sul commercio, durante il quale ha pronunciato un discorso di incoraggiamento alle imprese ad ampliare la collaborazione.

Il viaggio diplomatico di Li Keqiang proseguirà in Europa; intanto, è stata ufficializzata la notizia dell’incontro tra il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping con il Presidente degli Stati Uniti Obama, annunciato dal portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang.

Sarà una visita diplomatica “non ufficiale” a sottolineare l’importanza data alla sostanza piuttosto che al protocollo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi; una riproposizione della “diplomazia del ping pong”.

Il ministro degli Esteri Wang Yi ha detto che Xi e Obama discuteranno un “piano globale per il futuro delle relazioni bilaterali, mentre il portavoce del ministero, Hong Lei, ha aggiunto che“l’incontro intende promuovere la comunicazione, la fiducia e la cooperazione reciproca in termini vantaggiosi per entrambi i Paesi, e si propone di contribuire a gestire in modo efficace le loro differenze”.

 


«… ADDOSSATEVI IL FARDELLO DEL BIANCO – LE BARBARE GUERRE DELLA PACE»

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«… Addossatevi il fardello del Bianco

   Le barbare guerre della pace»

(Rudyard R. Kipling, Il fardello dell’uomo bianco)

 

 

Difficile, a prima vista, trovare un punto di contatto fra il suicidio spettacolare di un intellettuale nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi (21 maggio) e la macellazione rituale di un soldato britannico in un sobborgo di Londra (22 maggio).

Tutt’al più, la furia del giovane inglese di colore che si è riversata sul militare reduce dall’Afghanistan sembra suggerire la correttezza delle riflessioni di Dominique Venner sui pericoli che minacciano “la patria francese ed europea”.

Paradossalmente, invece, il gesto estremo di Venner anticipa la denuncia di Michael Olumide Adebolajo — che non parla certo a nome dell’Islam, ma che tuttavia si fa portavoce di un disagio diffuso meritevole di maggiore e più approfondita considerazione da parte dell’Occidente — il quale così si esprime nell’ultimo messaggio lanciato pubblicamente prima dell’arresto:

«We swear by almighty Allah we will never stop fighting you. The only reasons we have  done this is because Muslims are dying every day. This British soldier is an eye for an eye, a tooth for tooth. We must fight them. I apologise that women had to witness this today, but in our land  our women have to see the same. You people will never be safe. Remove your government. They don’t care about you.» — “Per Allah onnipotente, noi giuriamo che non smetteremo mai di combattere contro di voi. La sola ragione per cui abbiamo fatto questo è che i Musulmani muoiono ogni giorno. Questo soldato inglese rappresenta soltanto un occhio per occhio, dente per dente. Noi dobbiamo combattere contro di loro. Mi scuso con le donne che hanno dovuto assistere a questo, ma nella nostra terra le nostre donne devono vedere le stesse cose. La vostra gente non sarà mai al sicuro. Cambiate governo. Al vostro governo non importa niente di voi”.

Mi spiego meglio. I francesi, galanti e galantuomini ma anche pragmatici, sono soliti dire che nella vita di una donna non conta il primo uomo, ma l’ultimo. Questa dell’ultimo impegno mi è sempre parsa un’osservazione pertinente, e suscettibile di applicazione in molti ambiti: così, non m’interessa che cosa Venner abbia fatto nei suoi 78 anni di vita — combattente in Algeria, militante e intellettuale di destra, amante di caccia e armi, pagano etc. M’interessa invece quello che Venner ha lasciato scritto nell’ultimo post del suo blog (http://www.dominiquevenner.fr/2013/05/la-manif-du-26-mai-et-heidegger/) e nel messaggio lasciato sull’altare di Notre-Dame.

Sul blog, dopo aver denunciato l’ “infamia” della legge a favore dei “matrimoni” omosessuali, Venner parla di una “tradizione europea che rispetta la donna” e dell’ “islam che non la rispetta”; parla di una “Francia caduta in potere degli islamici”; parla del “pericolo catastrofico” di una sostituzione della popolazione di Francia ed Europa con una popolazione afro-maghrebina; parla di “riconquista della memoria identitaria francese ed europea”. Nel messaggio, denuncia “gli immensi pericoli per la patria francese ed europea”, la distruzione degli “ancoraggi identitari” e “il rimpiazzo delle nostre popolazioni”.

Ora, a parte ogni valutazione sugli omosessuali, scendiamo nello specifico: ammetto serenamente di faticare non poco a comprendere in cosa una legge che, consentendo il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso, attua di fatto una politica di normalizzazione della trasgressione possa nuocere alla tradizione e all’identità della patria francese ed europea più dell’appoggio senza riserve alle guerre imperialiste americane; più del sostegno incondizionato all’entità sionista che occupa militarmente la Palestina; più della totale acquiescenza verso l’occupazione americana del suolo europeo che si protrae da settant’anni; più dell’islamofobia e dello “spirito di crociata” instillato da George Bush jr. nelle torpide coscienze occidentali all’indomani dell’11 settembre.

Con tutto il rispetto per le opinioni e le scelte di Dominique Venner e di chi la pensa come lui, non posso non rilevare che da decenni, ormai, da più parti si afferma a gran voce la necessità imprescindibile di liquidare le categorie mentali di “Occidente” e di “Europa”: perché desuete e anzi dannose per la comprensione delle nuove dinamiche planetarie — e tutto questo a maggior ragione dopo la catastrofe dell’11 settembre 2001: intendendo qui catastrofe nel suo senso più strettamente etimologico di “repentino cambiamento di stato”. A partire da quella data, niente è rimasto come prima: la situazione internazionale è mutata radicalmente, e gli eventi hanno subìto un’accelerazione esponenziale con sviluppi imprevisti. Che a più di un decennio da quei fatti si possa ancora parlare con orgoglio di un’Europa (ma quale?!?) da salvare, è cosa che lascia perplessi — me, almeno.

Non trovo, per concludere, parole migliori di quelle scritte da Alain de Benoist proprio in risposta a Dominique Venner («Alain de Benoist répond à Dominique Venner. La droite en questions», in “Eléments”, n. 119, décembre 2005-février 2006): «La fedeltà è, per esempio, la fedeltà alle promesse che si sono fatte, la fedeltà agli amici che si comportano da amici, la fedeltà al compito che ci si è assegnato, la fedeltà al metodo che si è scelto. La fedeltà non è la testardaggine o l’ostinazione, e meno che mai l’alibi dell’impotenza o della rigidità. Non consiste nel ripetere idee false, anche se questo può aiutare a vivere, né nel gloriarsi di non rimpiangere per principio niente di quel che si è fatto».

 

« LES SANCTIONS RELATIVES À LA NON PROLIFÉRATION NUCLÉAIRE : ÉVALUATION ET APPRÉCIATION DES EXIGENCES ET DES CONSÉQUENCES »

OBAMA INCONTRA PEÑA NIETO

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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, forte della sua conferma alla Casa Bianca, ha intrapreso, lo scorso 2 maggio, un viaggio in Messico e Costa Rica, sancendo il riavvicinamento di Washington alla regione centroamericana. All’ordine del giorno temi da sempre al centro dell’agenda messicano-statunitense: regolamentazione dell’immigrazione, lotta al narcotraffico e libero commercio. Obama ha incontrato l’omologo messicano, Enrique Peña Nieto, neoletto nel novembre del 2012, al quale ha confermato la volontà di proseguire il progetto di liberalizzazione commerciale. Immigrazione, commercio e sicurezza rappresentano le sfide che Obama e Nieto dovranno affrontare per dare quell’impulso necessario a concretizzare il tanto decantato progetto d’integrazione nordamericano.

 

 

 

Nodo immigrazione: il dibattito continua

Il tema dell’immigrazione è stato un fattore decisivo per la rielezione di Obama. Negli Stati del Sud, come Texas, California e Arizona, più soggetti al fenomeno e notoriamente conservatori, il voto degli immigrati è stato determinante nella corsa alla Casa Bianca. La forte interdipendenza tra i due Paesi sulla questione dell’immigrazione ha fatto dei messicani i diretti interessati nell’ottica di una riforma del sistema migratorio statunitense, ad oggi incapace di rispondere alle esigenze e alle difficoltà della sua economia.

Secondo Obama è arrivato il momento di rivedere e ripensare le leggi in materia e infatti è stato proposto da quatto senatori un pacchetto di leggi bipartisan che permetterebbe a 11 milioni di “latinos” clandestini (di cui solo 7 messicani) di intraprendere un percorso burocratico che legalizzerebbe la loro permanenza sul suolo statunitense. Non si tratta di un’amnistia, ma semplicemente di dare la possibilità agli immigrati che risiedono da anni negli U.S.A. di essere tutelati da un sistema legale che non preveda la loro espulsione. La riforma prevede anche una forma di facilitazione per le famiglie messicane di ricongiungimento con i familiari clandestini legalizzati in territorio statunitense. Obama otterrà molto probabilmente anche l’appoggio dei repubblicani, che da tempo chiedono delle misure più efficaci per regolarizzare il flusso migratorio attraverso un controllo più esteso e ferreo del confine, unico punto sul quale i due governi  hanno realmente collaborato.

Negli ultimi dieci anni infatti la cooperazione tra Stati Uniti e Messico si è arenata. In un’ottica bilaterale occorre tornare a considerare il Bracero Programm (1942-1964): un accordo firmato da Roosevelt con il governo messicano per l’importazione di lavoratori messicani sul suolo statunitense (quando gli U.S.A. necessitavano di forza lavoro). Nel 2001 erano stati avviati dei colloqui tra l’amministrazione Bush e l’amministrazione Fox per raggiungere ad un accordo bilaterale che avrebbe  dato il via ad una serie di provvedimenti: un programma di reclutamento e inserimento di lavoratori messicani nel mercato del lavoro statunitense; la concessione di permessi di soggiorno; il rafforzamento dei confini con il Messico; un programma d’investimenti in alcune comunità messicane di confine da parte degli Stati Uniti per scoraggiare l’immigrazione clandestina.(1)

Dopo l’attentato dell’undici settembre però, qualsiasi tipo di concertazione e gestione condivisa dell’immigrazione è naufragato. Da quel momento il “migrante” è stato recepito più come un problema legato alla criminalità invece che come risorsa per l’economia statunitense. La politica migratoria di Bush si è orientata su politiche di sicurezza in senso stretto, riducendosi a una serie di provvedimenti di fortificazione delle duemila miglia di confine con il Messico, attraverso un piano di rafforzamento delle frontiere elaborato dal Border Patrol (agenzia di controllo migratorio controllata dal Department of Homeland Security) nel 1986 e ridefinito nel 2005. Dagli anni novanta gli agenti impiegati alla frontiera, equipaggiati con le migliori tecnologie (compresi 6 aircraft), sono aumentati da 3700 a 18500 per una spesa totale di 1 miliardo di dollari.(2) A tali provvedimenti sono state affiancate delle severe politiche d’incarcerazione e rimpatrio dei clandestini.

Sostenere che in questi anni vi sia stata scarsa cooperazione tra Stati Uniti e Messico è quasi eufemistico. L’ex presidente messicano Calderòn ha giocato un ruolo sostanzialmente marginale, limitandosi ad appoggiare senza se e senza ma le politiche di Bush attraverso l’Istituto Nacional de Migracion messicano – organo dipendente del Ministero dell’Intero ed atto a controllare l’immigrazione.

La strategia politica alla base di questi provvedimenti è stata la “prevention through deterrence” (prevenzione attraverso la deterrenza) e cioè una “deterrenza al confine” che avrebbe dovuto scoraggiare il fenomeno dell’immigrazione illegale attraverso delle ferree misure di sicurezza adottate sui punti più vulnerabili della frontiera. L’alta percentuale di “recidivismo migratorio” però tende a sconfessare l’efficacia di questi provvedimenti: secondo uno studio condotto dal Judiciary Committee tra il 2008 e il 2011, il 45 % dell’immigrazione illegale è costituito da messicani che hanno provato più di una volta a oltrepassare il confine.(3)

È altrettanto innegabile però che l’immigrazione clandestina si è ridotta notevolmente negli ultimi anni. Infatti nel 2005 si contavano circa 433.000 immigrati, mentre oggi sono scesi sotto i 150.000.(4)

E’ bene non escludere però un elemento importante a tal proposito, e cioè la forte interdipendenza tra il settore economico e quello dell’immigrazione. Le grandi difficoltà dell’economia statunitense, ufficializzate con l’entrata in recessione nel dicembre del 2007 e la galoppante economia messicana, la cui crescita nel 2013 ha superato il 4 %, hanno costituito un fattore di deterrenza più efficace delle misure insite nel Border Patrol.(5) Esiste un rapporto inversamente proporzionale tra crescita dell’economia in Messico e immigrazione illegale e proprio per questo motivo sia Stati Uniti che Messico hanno interesse a creare un sistema d’immigrazione che funzioni: controllare e organizzare tale criticità gioverebbe enormemente alle economie di entrambi gli Stati). Tuttavia è necessario che la forte asimmetria in materia d’immigrazione tra Washington e Città del Messico venga superata e che quest’ultima giochi un ruolo più attivo, senza dover subire e dipendere continuamente dalle riforme d’oltre confine.

a seguito dell’incontro tra i due Presidenti non è previsto un accordo bilaterale, ma Nieto ha affermato che fornirà tutto il suo appoggio per una riforma dell’immigrazione statunitense all’insegna di una “comprehensive policy”. Senza dubbio i due Stati continueranno a collaborare sulla “deterrenza al confine”. Ciò che forse ci si aspetta da questa interazione Obama-Nieto – che sembra poter trovare maggiori spazi di collaborazionismo rispetto alla coppia Obama-Calderon- è che venga considerato maggiormente l’elemento della “deterrenza entro i confini”, cercando dunque di puntare (attraverso il sostegno finanziario degli U.S.A.) sul mercato del lavoro messicano per scoraggiare il fenomeno dell’immigrazione illegale.

 

Criminalità e sicurezza: un nuovo approccio con l’amministrazione nieto?

Durante l’incontro tra Obama e Nieto è stato affrontato il tema del narcotraffico. La situazione di violenza generatasi in Messico negli ultimi 18 mesi, frutto del flusso bidirezionale creatosi tra i due Paesi- con la droga che parte dall’America del Sud e arriva negli Stati Uniti e le armi che fanno il percorso inverso-  testimonia l’inadeguatezza con cui è stato gestito il problema sino ad oggi. C’è molto scontento a Città del Messico per come è stata affrontata la sfida ai narcos e i 70 mila morti degli ultimi 7 anni pesano anche sulla coscienza di Obama, il quale ha rivolto un’importante autocritica alla propria amministrazione.(6) È necessario dunque che la nuova partnership imbocchi una via alternativa alla “guerra totale” contro i trafficanti di droga.

In materia di sicurezza la questione dei narcos è soggetta ad un altro tipo di collaborazionismo tra il governo messicano e statunitense. Il ruolo del Messico pesa sicuramente di più rispetto a quello che ricopre nella gestione dell’immigrazione illegale e il precedente governo messicano, presieduto da Felipe Calderon, non può chiamarsi fuori.

La lotta ai cartelli della droga ha alle spalle una storia di accordi bilaterali importanti. Il pilastro su cui si è eretta la cooperazione tra Stati Uniti e Messico negli ultimi anni è l’”Iniziativa Merida”, un accordo bilaterale firmato dall’amministrazione Bush nell’ottobre del 2007, in seguito alle richieste del governo Calderòn per un maggiore supporto e coinvolgimento degli Stati Uniti nella lotta al narcotraffico. L’accordo è stato accolto come un “nuovo paradigma” della cooperazione tra i due Stati: un progresso diplomatico che ha determinato una presenza importante degli U.S.A. nelle politiche di sicurezza messicane attraverso una maggiore assistenza (anche tecnologica) , lo stanziamento di fondi, il rifornimento di equipaggiamenti alle forze militari messicane e la creazione di gruppi di lavoro multilaterali.

L’Iniziativa Merida si articolava in 4 punti che esprimevano tutto il radicalismo militare nella lotta ai narcos: cercare di spezzare il potere dei cartelli della droga colpendo i vertici delle organizzazioni criminali; aumentare i controlli marittimi, aerei e al confine; migliorare il sistema giudiziario delle regioni messicane alla frontiera, in quanto principale area d-azione dei narcotrafficanti; limitare e contenere attraverso azioni militari l’attività dei cartelli. Calderon ha fatto della lotta ai narcos una priorità della sua agenda politica, catturando venticinque dei trentasette maggiori boss della droga facenti capo alle due maggiori organizzazioni criminali: il DTO (Drug trafficking organizations) e Las Zetas. I fondi stanzianti dagli Stati Uniti dal 2008 al 2012 ammontano a quasi due miliardi di dollari, di cui 873,7 milioni sottoforma di equipaggiamenti e armi per le forze militari messicane.(7)

La guerra scatenata da Calderon e Stati Uniti contro i cartelli non ha però sortito gli effetti sperati e anzi la reazione dei narcos è stata durissima. Il bilancio di questi anni di guerra alla droga è un ecatombe: 70 mila morti, di cui solo 10 mila a Ciudad Juarez (definita  la città più pericolosa del mondo) e 26 mila desaparecidos. A demolire la strategia interventista di Calderon si aggiungono i dati relativi ai flussi di armi sul confine messicano-statunitense: dal 2007 ad oggi sono state sequestrate più di 90 mila armi, di cui 60 mila provenienti dagli Stati Uniti a sostegno dei narcotrafficanti e a cui si sommano gli scandali relativi agli agenti corrotti dell’FBI che avrebbero facilitato il rifornimento alle organizzazioni.(8) Pare inoltre che anche la cattura d’innumerevoli boss sia stato vana: i vecchi capi arrestati o uccisi sono stati sostituiti da leader più giovani e violenti.

L’insediamento di Nieto sembra però poter costituire quell’elemento di discontinuità necessario a orientare diversamente questa cooperazione. Il neo presidente ha già preso le distanze dal radicalismo del precedente governo e non ha intenzione di dare continuità alla pesante eredità lasciata dal suo predecessore. L’Iniziativa Merida sembra poter evolversi verso un altro tipo di approccio al problema: cercare quelle che sono le vere cause della criminalità in Messico, a cominciare dal debole assetto istituzionale giudiziario e dall’alto tasso di corruzione. Nel febbraio del 2013 è stato presentato il Programa Nacionl para Prevencion Social y la Delincuencia, che ha istituito una Commissione Intersegretariale per promuovere la coesione sociale, riscattare gli spazi pubblici e diffondere la cultura della pace. La nuova cooperazione tra Stati Uniti e Messico deve ripartire quindi da un programma che privilegi il miglioramento delle istituzioni, il miglioramento delle società messicana, lo sviluppo economico (soprattutto in quelle regioni più colpite dal narcotraffico) e la tutela dei diritti umani. Il presidente messicano ha affermato che il successo della sua strategia si misurerà sulla base delle riduzioni degli omicidi e altri crimini e non sul numero di arresti. Mettere al centro dunque la protezione dei cittadini attraverso un’Iniziativa Merida che abbia come obiettivo primario la prevenzione del crimine e non la sua estirpazione violenta. A differenza del suo predecessore, Nieto privilegia l’Institution Building: una riforma delle forze di polizia, includendo dei programmi d’informatizzazione (in parte finanziati dagli U.S.A.) e di addestramento speciale di unità anticrimine; una riforma del sistema delle carceri (a fine 2011 queste erano del 23% sopra la loro capacità di ospitalità); una riforma del codice penale che elimini clientelismo e corruzione dalle istituzioni; programmi di scolarizzazione e di sviluppo economico per le comunità di confine vittime del narcotraffico.(9)

La nuova presidenza di Nieto e la presa di coscienza da parte di Obama del fallimento dei precedenti approcci “militari” al problema, possono costituire delle premesse nuove sulle quali costruire una partnership che individui nel miglioramento della democrazia in Messico la chiave per sconfiggere la criminalità organizzata.

 

Libero commercio: gli accordi NAFTA per un’integrazione nordamericana

Il libero commercio costituisce indubbiamente la spina dorsale del rapporto tra Stati Uniti e Messico e probabilmente il motivo principe del viaggio di Obama. Durante l’incontro il Presidente statunitense ha affermato l’importanza di una progressiva e sempre maggiore integrazione tra le due economie, andando oltre gli accordi NAFTA e intensificando la cooperazione nel settore energetico. Obama ha infatti istituito un “gruppo di alto livello”, presieduto dal vicepresidente Joe Biden, per studiare e pianificare nuovi meccanismi di cooperazione commerciale, per la produzione e il miglioramento di beni e servizi e per l’innovazione tecnologica. Washington è conscia dell’importanza del Messico in questo momento. La lenta ripresa dell’economia statunitense non può certo contare come una volta su i due colossi India e Cina, entrambi potenze che in questa fase storica stanno subendo delle flessioni/rallentamenti. Gli U.S.A. si trovano in difficoltà soprattutto per quanto riguarda le esportazioni e hanno bisogno di Paesi che acquistino dal loro settore manifatturiero. L’economia messicana ha invece sorprendentemente tenuto durante la fase più acuta della crisi internazionale ed è, tra le economie emergenti, quella che in questo momento si trova in condizioni migliori. Obama ritiene che il Messico ricopra un ruolo chiave per la ripresa economica degli Stati Uniti.

Gli Accordi NAFTA (North American Free Trade Agreement), trattato di libero scambio commerciale firmato nel 1992 dai governi di Messico, Stati Uniti e Canada, costituiscono il perno attorno al quale ruota la relazione economica messicano-statunitense. Dopo decenni di politiche protezioniste attuate dal Partido Revolucionario Institucional, che avevano sostenuto le industrie messicane con agevolazioni fiscali e lauti sussidi statali e protetto la produzione e l’esportazione con ingenti dazi doganali, il pressante debito pubblico obbligò il governo in carica a tagliare drasticamente la spesa pubblica e a intraprendere delle riforme di liberalizzazione. Negli anni novanta il Presidente messicano Salinas iniziò ad attuare dei programmi di privatizzazione dei monopoli statali e imprese pubbliche e ad abbattere le barriere doganali che avevano allontanato fino a quel momento internazionale gli IDE (Investimenti Diretti Esteri). Il decisivo cambio di rotta avvenne con la firma degli accordi NAFTA, allora considerato il più grande trattato di libero commercio del mondo, che avrebbe dovuto garantire una maggiore attrazione degli investimenti esteri da parte del Messico, rendere quest’ultimo più competitivo sul mercato globale attraverso un aumento delle esportazioni e importazioni, abbattere quelle frontiere di scetticismo politico tra Messico e Stati Uniti e favorire un progressivo pluralismo politico messicano (visto che il Partido Revolucionario Istitucional aveva governato ininterrottamente dal 1929 al 2000).

La firma degli accordi NAFTA non avvenne in un “unidirezionale trionfalismo politico” e molti economisti si interrogarono sull’efficacia e gli effetti che avrebbe potuto avere un trattato economico così anomalo, in quanto stipulato tra due Paesi altamente industrializzati, (Stati Uniti e Canada) e un Paese in via di sviluppo. Il timore più grande degli esperti era che una liberalizzazione così repentina avrebbe provocato disoccupazione negli U.S.A. a causa della possibilità che molti investitori avrebbero potuto spostato la loro produzione in Messico attratti da un   costo del lavoro più basso e da una tassazione inferiore.

Al di là degli scetticismi, gli accordi NAFTA prevedevano, per un periodo iniziale di quindici anni, l’immediata eliminazione dei dazi doganali su molte categorie di prodotti statunitensi diretti in Messico (auto, computer, tessili e prodotti agricoli), cui si aggiungeva la rimozione delle restrizioni sui flussi d’investimenti e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.

In generale il progressivo abbattimento delle barriere ha permesso agli Stati Uniti di triplicare gli scambi con  il Messico, e in particolare: dal 1993 al 2012 le esportazioni sono aumentate del 420 % (da 41,6 a 216,3 miliardo di dollari) e le importazioni del 596 % (da 39,9 a 277,2 miliardi di dollari). Al momento della firma il mercato tra i tre paesi del blocco era inferiore a 297 miliardi di dollari mentre oggi ammonta a 1,6 trilioni.(10)

È difficile poter esaminare nitidamente gli effetti del NAFTA sull’andamento economico dei due Paesi, in quanto quest’ultimo è soggetto anche alle diverse politiche economiche attuate dai governi. Ciononostante è possibile fare alcune considerazioni. Da una prospettiva statunitense l’impatto netto che gli accordi hanno sull’economia è relativamente piccolo, perché gli scambi commerciali con il Messico costituiscono non più del 1,4% del PIL e quindi poco più di un miliardo di dollari all’anno.(11) Sicuramente le esportazioni statunitensi ne hanno giovato e in particolar modo considerando il settore automobilistico: dall’entrata in vigore degli accordi le esportazioni con il Messico sono aumentate del 232% e nel 2011 il mercato messicano è diventato il primo partner con il 26 % totale delle esportazioni statunitensi sul piano internazionale nel campo dell’automobile.(12)

Dal punto di vista messicano i trattati del NAFTA hanno una rilevanza complessiva più importante . Gli aspetti positivi sono individuabili nella produttività messicana: gli accordi hanno permesso al settore manifatturiero messicano di adattarsi più velocemente agli standard tecnologici di U.S.A. e Canada, di creare nuovi posti di lavoro qualitativamente migliori, di contribuire a mantenere una costante crescita economica nel tempo (ad oggi al 4 %). Secondo un’analisi condotta dal Office of the United States Trade Representative il Messico è diventato il secondo partner degli Stati Uniti per le esportazioni. Gli investimenti degli Stati Uniti in Messico sono aumentati dal 1993 al 2011 del 501% (da circa 15,2 a 91,4 miliardi di dollari) così come quelli messicani su suolo statunitense che sono passati dagli 1,2 miliardi (anni novanta) ai 13,8 miliardi (2011) (13). All’apertura dei mercati e soprattutto grazie agli investimenti esteri, si è  assistito anche ad un  cambiamento sociale soprattutto per quanto riguarda la redistribuzione della ricchezza(che ha provocato l’emergere di una classe media messicana forte e competitiva). Secondo il Tufts University’s Global Development and Environment Institute negli ultimi 15 anni il prezzo dei beni di consumo è sceso quasi del 50 % e i salari sono aumentati permettendo ai messicani di investire e aprire nuove attività. Secondo la Banca Mondiale, inoltre, il livello di povertà è sceso dal 69% al 43 % tra il 1996 e il 2012 a testimoniare che più della metà della popolazione appartiene ad una fascia medio-alta (in termini di ricchezza).

Tuttavia è necessario considerare anche gli aspetti meno positivi. Il settore ad avere reagito negativamente agli accordi NAFTA è stato quello dell’agricoltura – settore cruciale nell’economia messicana. Le crescenti esportazioni da parte degli U.S.A. di prodotti agricoli (venduti ad un prezzo di circa il 30% inferiore) hanno costretto molti agricoltori ad abbassare i prezzi per rendersi competitivi provocando la chiusura di molte aziende agricole e facendo aumentare la disoccupazione (circa 2 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro dal 1994).(14) Con il crollo delle esportazioni nel settore agricolo molti agricoltori disoccupati si sono trasferiti nelle grandi città cercando di inserirsi nel settore manifatturiero, ossia quello che maggiormente aveva beneficiato dalle politiche liberali. L’aumento di 1,3 milioni di posti di lavoronelle aziende manufatturiere non ha però compensato il buco occupazionale provocato nell’ambito agricolo, che ancora oggi si trova in difficoltà.(15)

In generale gli accordi NAFTA hanno legato inevitabilmente l’economia messicana a quella statunitense nel bene e nel male. Era prevedibile dunque che la crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti sette anni fa, avesse delle ripercussioni sul mercato messicano, le cui importazioni e esportazioni hanno subito una flessione. Probabilmente è troppo tardi perché il Messico si smarchi dalla dipendenza economia da Washington e si inserisca come individualità di rilievo sul mercato internazionale. Il Messico oggi è il Paese che ha firmato il maggior numero di trattati di libero commercio al mondo: 49 accordi con 44 Stati diversi. Tuttavia, secondo la Segreteria Economica il 78 % del commercio messicano è realizzato con gli Stati Uniti.(16)

Si evince che per realizzare un partenariato commerciale più efficiente e competitivo anche su scala mondiale occorre rivedere e ripensare gli accordi NAFTA.

Molti esperti sostengono che, sebbene l’economia messicana si sia avvicinata maggiormente ai livelli statunitensi e canadesi, la distanza rimane ancora considerevole, soprattutto perché alla liberalizzazione commerciale non sono state affiancate delle politiche atte a intensificare l’integrazione regionale del blocco. Da un punto di vista economico è bene tenere presente che il NAFTA non è un accordo trilaterale, ma doppiamente bilaterale: ciò vuol dire che gli scambi avvengono principalmente tra U.S.A.-Canada e U.S.A.-Messico, struttura che purtroppo inibisce le potenzialità import-export messicane. Per aumentare la competitività del blocco occorre favorire maggiormente gli scambi commerciali anche tra l’economia canadese e messicana. Inoltre il grande progetto d’integrazione regionale non può essere concepito solo in termini economici, ma occorre, come già detto, che il commercio sia sostenuto da politiche nel campo infrastrutturale e migratorio. In particolare, dopo l’11 settembre 2001, le ferree misure di sicurezza del Border Patrol hanno notevolmente limitato il flusso di merci, soprattutto a causa della cosiddetta “regola dell’origine”.

In ambito infrastrutturale alcuni esperti sostengono che sarebbe positivo creare un Fondo d’Investimento Nordamericano, gestito dalla Banca Mondiale, che permetta ai tre Stati d’investire in infrastrutture (soprattutto alle frontiere) che facilitino il collegamento e lo scambio di merci. La proposta di Obama di creare un gruppo di alto livello presieduto da Biden e finalizzato ad armonizzare e concertare le diverse idee e politiche tra i tre Stati, è sicuramente un passo in avanti. Alcuni economisti sostengono tuttavia che, per sfruttare a pieno le potenzialità del blocco, sia necessario superare l’ossessiva dipendenza commerciale dalla struttura governativa degli Stati Uniti e creare quindi una Commissione Nordamericana per studiare nuovi programmi d’integrazione commerciale, energetica, infrastrutturale e culturale composta da esponenti della società civile e dell’imprenditoria. Il fondo d’investimenti non si limiterebbe dunque al miglioramento del settore infrastrutturale ma servirebbe anche a favorire l’integrazione  culturale tra i tre diversi Stati attraverso programmi nel campo dell’istruzione (facilitino volti ad esempio a facilitare lo scambio di studenti).

 

 

Conclusione: il fattore Peña Nieto

La tappa di Obama a Città del Messico, prima di partecipare ai vertici sudamericani, ricorda molto il comportamento dei presidenti statunitensi durante la Guerra Fredda, i quali si fermavano a Londra prima di prendere parte ai vertici europei della NATO. In quest’ottica il Messico ricopre per gli U.S.A. un ruolo privilegiato rispetto agli altri Paesi sudamericani. Immigrazione, commercio e lotta al narcotraffico rappresentano l’ostacolo da superare sulla strada dell’integrazione. Esse costituiscono delle questioni che occorre risolvere attraverso una visione unita e congiunta proprio per l’interdipendenza tra i tre temi e che perciò sono risolvibili solo con una concertazione e condivisione comune di idee e politiche. Il fattore decisivo, o di novità se si vuole, nei rapporti bilaterali tra Messico e Stati Uniti rispetto al passato, potrebbe essere costituito dalla neo presidenza di Peña Nieto, cui la classe dirigente americana guarda con curiosità. L’agenda riformista del neopresidente messicano, che sembra guidare un nuovo PRI che difficilmente deraglierà più verso forme di autoritarismo grazie alla rinnovata classe dirigente e alle riforme costituzionali degli ultimi anni, fa ben sperare Obama. Il Pact of Mexico, ovvero il pacchetto di riforme di Nieto che prevede una serie di provvedimenti (tra cui riduzione della violenza, lotta alla povertà, riforma dell’istruzione, sostegno alla crescita e leggi anti-corruzione) sembra potersi avvicinare alla linea politica del presidente statunitense, soprattutto in materia di sicurezza.

 

 

*Davide Delaiti, laureato in Studi Internazionali presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze Politiche

 

 

(1)    Marc. R. Rosenblum, William A. Kandel, Clare Ribando Seelke, Ruth Ellen Wasem, Mexican Migration to the United States: Policy and Trends, Congressional Research Service, 7 Giugno 2007, Washington, p. 19.

(2)    Ivi, p 20.

(3)    Ivi, p. 24.

(4)    Gobierno Federal de México, Secretaria de Gobernación (SEGOB), Apuntes Sobre Migración, July 1,2011. Sito:  http://www.inm.gob.mx/index.php/page/Apuntes_sobre_migracion; SEGOB, Boletín Mensual de EstadísticasMigratorias, 2005-2010, http://www.inm.gob.mx/index.php/page/Boletines_Estadisticos.

(5)    Index of Economic Freedom, Country: Mexico, The Heritage Foundation, sito: http://www.heritage.org/index/country/mexico.

(6)    Clare Ribaldo Seelke, Mexico’s new Administration: Priorities and Key Issues in U.S.- Mexican Relations, Congressional Research Service, 16 Gennaio 2013, Washington, p. 10.

(7)    Kristin M. Finklea, Clare R. Seelke, U.S.-Mexican Security Cooperation: the Mèrida Initative and Beyond, Congressional Research Service, 14 Gennaio 2013, Washington, p. 9.

(8)    Ivi, p. 10.

(9)    U.S. Department of State, 2011 Country Report on Human Rights Practices: Mexico, May 2012, http://www.state.gov/j/drl/rls/hrrpt/humanrightsreport/index.htm?dlid=186528.

(10) M. Angeles Villareal, Ian F. Fergusson, NAFTA at 20: Overview and Trade Effects, Congressional Research Service, 21 Febbraio 2013, Washington, p. 11.

(11) Ivi, p. 12.

(12) Merchandise trade statistics in this paragraph are derived from data from the U.S. International Trade Commission’s Interactive Tariff and Trade Data Web, at http://dataweb.usitc.gov.

(13) Office of the United States Trade Rapresentative, Executive office of the President, Dates of Mexico: http://www.ustr.gov/countries-regions/americas/mexico.

(14) Catie Duckworth, The Failure of Nafta- Analysis, Eurasia Reviews, 21 Giugno 2012.

(15) Ibidem.

(16) Alberto Najar, De què le sirve a Mexico ser el paìs con màs libre comercio del mundo?, BBC- Mundo, 14 Maggio 2013, Città del Messico.

 

L’ARGENTINA E IL PROBLEMA DELL’INFLAZIONE

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In Argentina uno dei temi caldi è certamente rappresentato dall’inflazione galoppante, che sta caratterizzando l’economia del Paese.

La questione inflazionistica è recentemente salita alla ribalta principalmente attraverso due episodi: innanzitutto il provvedimento di censura adottato dal Fondo Monetario Internazionale nei confronti di Buenos Aires; secondariamente la figuraccia di cui si è reso protagonista ultimamente il Ministro dell’Economia argentino.

Per quanto riguarda la prima questione, il 2 febbraio scorso il FMI ha adottato una dichiarazione di censura nei confronti di Buenos Aires, accusandola di fornire dati poco accurati e non veritieri riguardo all’inflazione. Ad occuparsi di tali statistiche nel Paese sudamericano è l’ Indec (Instituto Nacional de Estadísticas y Censos), il quale ha calcolato per il 2012 un’inflazione del 10,8%; invece i dati proposti da alcune agenzie private o enti internazionali attestano l’inflazione mediamente intorno al 25%.

Tale divario ha lentamente generato l’attuale messa in discussione della credibilità dei dati forniti dall’istituto e quindi l’accusa di mancanza di trasparenza in capo al governo argentino da parte del FMI. Quest’ultimo ha infatti intimato al Governo di Cristina Kirchner di correggere al più presto le inesattezze, non oltre il 29 settembre 2013. (1)

Si tratta della prima tappa di un processo di sanzione all’interno dell’organizzazione internazionale; un processo che, se non vedrà un celere ravvedimento da parte delle autorità argentine, non farà che aggravare il conflitto tra FMI e Argentina, potendo potenzialmente sfociare nell’espulsione del Paese dall’organizzazione.

La risposta della Kirchner non è stata affatto docile; dalla sua pagina twitter ha tuonato contro il FMI, accusandolo di non essere stato in grado di prevedere le crisi economiche degli anni passati, né di aver sostenuto l’Argentina durante la sua gravissima crisi del 2001.

Da Buenos Aires non sembrano quindi volersi piegare facilmente ai dettami provenienti da Washington; a questo proposito sembra che le lezioni del passato siano state recepite. La Kirchner afferma infatti che negli anni ’90, il suo Paese sia stato “alunno modello” del Fmi, mettendone in campo le politiche di privatizzazione generalizzata e non ottenendo da tale zelo altro che la distruttiva crisi economica del 2001.

Al contrario, la Kirchner sembra voler dare un taglio netto al passato di subordinazione ai dettami stranieri, puntando da più direzioni verso un approccio più strettamente nazionalista. In particolare ciò emerge da due episodi noti: la nazionalizzazione dell’impresa petrolifera Ypf e il contrasto con Londra per riottenere le Malvinas.

Infatti, nel 2012 Buenos Aires ha deciso di nazionalizzare la Ypf, suscitando forti polemiche; tale impresa petrolifera era stata privatizzata negli anni ’90, seguendo le indicazioni di stampo neoliberista del Fmi. Nel corso degli anni 2000, però, la produzione di gas e petrolio è notevolmente diminuita, non riuscendo a soddisfare il fabbisogno interno di tali risorse e quindi causando un incremento notevole delle importazioni argentine di tali beni. Nel 2011 le quote di tali importazioni sono addirittura raddoppiate rispetto all’anno precedente. (3) Alcuni dati resi noti dalle autorità statali sono anche più significativi. Essi attestano infatti per quanto riguarda il petrolio il passaggio da 110 milioni di barili estratti nel 2009 a 10 milioni solo due anni dopo; invece, relativamente all’estrazione di gas nei medesimi anni (2009-2011), il passaggio è stato dai 533mila metri cubi a 441mila. (4)

L’Argentina ha deciso di non rimanere a guardare e la scelta di nazionalizzare la propria industria petrolifera appare orientata da ragioni prettamente economiche, per altro già esperita da molte altre nazioni.

Un aspetto invece più ideologico del nazionalismo, ha preso forma con la crisi argentino-britannica rispetto alla questione delle Malvinas-Falklands.

Ad ogni modo, che si tratti di motivate ragioni economiche orientate al benessere del Paese o che se ne voglia preferire una lettura ideologicamente connotata, certo è che le scelte economiche e politiche della Presidentessa argentina rappresentano un punto di rottura col passato di subordinazione al neoliberalismo imposto dal mercato e incarnato nel Fmi. È necessario attendere le prossime scelte di Cristina Kirchner per comprendere se sarà possibile un dialogo con l’organizzazione o se si arriverà davvero alla rottura.

A svantaggio di Buenos Aires, rimane però l’evidenza di un’economia problematica, dominata dall’incertezza, che il Governo non sembra volere o sapere affrontare.

Emblematica è la figura pessima di cui si è reso protagonista Hernan Lorenzino, attuale Ministro dell’Economia.

Ci si riferisce a un’intervista effettuata da un televisione greca a Lorenzino, da cui emerge la sua sconcertante mancanza di preparazione e risposte concrete.

La giornalista, consapevole della rilevanza e della problematicità dell’inflazione nell’economia attuale dell’Argentina, si rivolge in maniera molto diretta al Ministro, domandandogli di quanto sia l’inflazione in Argentina in quel momento.

Lorenzino mostra immediatamente la sua sorpresa e tenta di aggirare la questione, affermando che le uniche statistiche attendibili in Argentina sono quelle dell’INDEC  (Instituto Nacional de Estadisticas y Censos), istituto che dipende dal Ministero dell’Economia.

Solo in seguito all’insistenza della giornalista, Lorenzino attesta con estrema incertezza il tasso d’inflazione al 10,2%, senza dare ulteriori spiegazioni.

La situazione però precipita quando viene affrontata la polemica che oppone ormai da oltre un anno il Fondo Monetario Internazionale e Buenos Aires. La giornalista fa riferimento alle sanzioni imposte da Washington “per la statistiche erronee” comunicategli dall’Indec e chiede al Ministro come abbiano intenzione di agire.

A questo punto il protagonista di questa pessima figura tenta con imbarazzo di rispondere in maniera confusa, balbetta e poi chiede una pausa, ma i microfoni rimangono accessi. L’intervista si interrompe qui. Si sente chiaramente l’argentino affermare “Me quiero ir”, perché in Argentina “parlare di statistiche sull’inflazione è complesso”.

Il problema nasce quando a rilasciare tali dichiarazioni è il Ministro dell’Economia. Chi altro dovrebbe affrontare, comprendere, risolvere tali questioni?

Interviene infine un assistente del Ministro, il quale si premura di spiegare all’incredula intervistatrice le ragioni di una tale brusca interruzione; il fatto è che in Argentina di inflazione non si parla, nemmeno coi media argentini.

La giornalista però sa che non è così. Per meglio dire, il Governo non ne parla; ma l’Argentina, gli argentini sì. “ [...] Se si va per strada tutti dicono che c’è un’inflazione molto alta, tutti ne parlano; non è possibile che io non lo chieda. È come se non facessi bene il mio lavoro”.

Tali preoccupazioni, non sembrano però affliggere Lorenzino, né essere al primo posto nell’agenda della Presidentessa Kirchner.

A questo proposito, Nelson Castro, giornalista argentino, durante una puntata del suo programma televisivo El juego limpio, affronta la questione della figuraccia del Ministro Lorenzino, scagliandosi più che contro il protagonista, direttamente contro il Capo del Governo Cristina Kirchner.

Innanzitutto Castro ridicolizza Lorenzino, evidenziando come ci sia un lato positivo in questa vicenda e cioè che finalmente gli argentini sanno chi è il Ministro dell’Economia e che non sa di quanto è l’inflazione. Dunque, vista l’inutilità di un tale funzionario, perché non realizzare il desiderio di Lorenzino e permettergli di andarsene?!

Il giornalista non si ferma qui e rincara la dose, proponendo alla Kirchner di cogliere l’opportunità per assumere un vero Ministro, perché ne ha bisogno, come tutti hanno bisogno di aiuto per comprendere le cose che non conoscono.

L’argentino conclude affermando che “l’economia dell’Argentina è a bordo di un Titanic e purtroppo lei, che è il capitano […] di questo Titanic, è convinta che l’iceberg non esista”. (5)

Inoltre, l’economia argentina vive una seria restrizione alle importazioni a causa del blocco dell’acquisto di dollari, che sta mettendo in ginocchio parecchie industrie locali.

La scelta di impedire l’acquisto di dollari è stata presentata dal governo come una misura volta a combattere l’evasione fiscale e la fuga di capitale verso l’estero, ma è fonte di dure critiche, sia per la messa in dubbio della sua efficacia, sia per gli effetti collaterali che provoca.(6)

Buenos Aires, infatti, si trova ora a dover fronteggiare un attivo mercato parallelo del dollaro, contraddistinto da forti divergenze col tasso di cambio ufficiale. Si registra cioè un divario di circa 3 punti tra i due tassi; se sul mercato nero il dollaro viene cambiato a 7,93 pesos, il cambio ufficiale si ferma invece a soli 4,94 pesos.(7)

Lo scenario dell’economia argentina appare quindi caratterizzato dalla mancanza di una direzione chiara, peggiorata dalla poca definizione degli obiettivi perseguiti dal governo, come rilevato dall’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale e dal suo Presidente Alfredo Somoza: “[...] Se avessero voluto solo bloccare o controllare la fuga di capitali verso altri stati, avrebbero avuto altri strumenti per farlo. Anche di tipo repressivo, come il controllo delle frontiere o delle banche stesse. Queste misure nuove invece colpiscono tutto e tutti e non si capisce a cosa servano”.(8)

In Argentina convivono quindi un mercato nero di valuta e statistiche inattendibili sull’inflazione e sul Pil. Un primo passo per la soluzione di tali problemi e la prevenzione di una generalizzata crisi economia potrebbe essere una corretta informazione dei tecnici e la sintonizzazione delle riforme economiche e amministrative con i problemi reali del Paese e della sua popolazione, che vede e vive la costante erosione del proprio potere d’acquisto e il conseguente abbassamento dei propri standard di vita.

 

 

 

* Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale presso L’Università degli Studi di Bergamo

 

 

 

(1) Il Fondo monetario censura l’Argentina: non ha fornito dati accurati sull’economia, Luca Veronese, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-02/fondo-monetario-censura-argentina-185355.shtml?uuid=AbgCTfQH

(2) Fmi, censura all’Argentina: corregga i dati, http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/fmi-censura-argentina.aspx

(3) La nazionalizzazione dell’YPF: le ragioni degli argentini, di Mark Weisbrot, da The Guardian, http://temi.repubblica.it/micromega-online/lanazionalizzazione-dellypf-le-ragioni-degli-argentini/

(4) Nazionalizzazione YPF. Quale scenario si apre ora per l’Argentina?, Matteo Villa, http://www.meridianionline.org/2012/05/25/nazionalizzazione-ypf-argentina/

(5) Nelson Castro comenta el papelon del Ministro, http://www.youtube.com/watch?v=B0c-v40W10k

(6) e (8) Argentina, fra dollari e mercato nero, http://www.eilmensile.it/2012/06/11/argentina-fra-dollari-e-mercato-nero/

(7) Argentina, mercato a 3 dollari dalla realtà: situazione economica rischiosa, http://pangeanews.net/economia/argentina-mercato-a-3-dollari-dalla-realta-situazione-economia-rischiosa/

“COMO MÁXIMO UNIÓN EUROPEA DURARÁ 10 AÑOS MÁS…”

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“Como máximo Unión Europea durará 10 años más…”

Entrevista de “VESTI” con el conocido politólogo ruso, presidente del Comité Islámico de Rusia Geidar Dzhemal

 

Ves.lv, 29-05-2013

 

Traducido del ruso por Arturo Marián Llanos

 

Geidar Dzhemal es uno de los expertos más populares en los canales de televisión rusos. Su opinión es interesante no solamente cuando la noticia sobre algún acontecimiento aún es candente y la polvareda de las discusiones todavía no ha reposado sobre las páginas de los periódicos en papel y los portales de internet. Otra cosa es más importante – los pronósticos políticos de Geidar Dzhemal a menudo se cumplen de una manera sorprendente. También ahora nos describe la futura Europa que nos cuesta comprender, en la que desaparecerá la corrección política, se esfumará el compromiso de la élite ante las amplias capas bajas y se perfilarán los contornos de la nueva organización, parecida al feudalismo con los prejuicios estamentales y elementos de presión violenta por parte de las fuerzas de seguridad. Todo ello, claro, acompañado de alto desarrollo tecnológico.

 

 

Larisa Pérsikova Nika Pérsikova

 

Hace 14 años, cuando Vladimir Putin acababa de ser elegido para su primer mandato y para la mayoría de la población no era más que heredero de Yeltsin, Geidar Dzhemal estuvo en Riga. Le entrevistamos y nos dijo una cosa muy interesante. “Putin llevará ahora una política patriótica, se pondrá a restaurar el estado y la dignidad nacional del pueblo.” “¿Por qué?” – preguntamos sorprendidas. Ya que por entonces el presidente de Rusia tenía clara fama de liberal. “Cualquier hombre que accediera ahora al cargo de presidente de Rusia, tendría que hacerlo, porque el tiempo ha llegado.”

Pasaron algunos años y en 2004 volvimos a entrevistar a Geidar Dzhemal. En esta ocasión también dijo una cosa significativa: si los EE.UU. quieren “sondear” a Rusia, montarán una provocación en Osetia del Sur o en Abjasia. Cuatro años después de esta conversación tuvo lugar la guerra georgiano- osetia.

De lo que ocurre en el mundo hoy, sobre los nuevos puntos calientes y peligros, del lugar que ocupa Letonia en los enfrentamientos entre el Oeste y el Este, Norte y Sur, conversamos ahora con el conocido politólogo.

 

Nueva Restauración

 

- Señor Dzhemal, recientemente en las elecciones en Gran Bretaña obtuvo éxito el partido de la independencia, que propone la salida de Gran Bretaña de la Unión Europea. En Italia y en España también se habla de la posible salida de estos países de la eurozona. En su opinión ¿hoy por hoy la Unión Europea es un sistema sólido?

- En primer lugar la Unión Europea fue construida según los moldes estadounidenses. Es decir, no cómo lo querían los europeos y por lo que lucharon durante varios siglos. Porque, en realidad, la unión europea ya existía en el siglo XIX. Porque toda Europa estaba gobernada por el concilio de las monarquías, entrelazadas por las relaciones de parentesco. Como se sabe, todas las monarquías clave, salvo Francia republicana, donde los Borbones fueron apartados, y Bonaparte perdió el imperio tras una guerra desastrosa – toda la demás Europa sencillamente estaba gobernada por parientes – primos hermanos y sobrinos.

La Unión Europea actual, que fue creada para sustituir aquella idea de la unidad, por la que en su tiempo luchó Napoleón y la que tenía en mente el Führer del Tercer Reich, esa Unión Europea no se corresponde en absoluto con el sueño histórico de los europeos. Porque existe como el sistema que sirve a la OTAN. Y la OTAN es el yugo que les fue colocado a los europeos después de la derrota de Europa en 1945. Es decir, que la OTAN es la forma que representa la pérdida de soberanía y el sometimiento de Europa por los Estados Unidos. Es por lo que actualmente la Unión Europea con respecto a los Estados Unidos está obligada a cumplir un papel servicial, incompleto.

Recordaré que los EE.UU. ejercen el papel de gendarme internacional desde hace tan solo un par de generaciones. Y que antes de la Segunda Guerra Mundial aunque ya se trataba de un país poderoso, que estaba entre los cinco primeros de Occidente, no era la potencia principal. Y antes de la Primera Guerra Mundial era un país con el estatus de Australia actual. Es decir, que la importancia de los EE.UU., su papel de superpotencia había aumentado increíblemente a costa de la derrota de Europa en 1945. Y a costa de la aparición del sistema bipolar, que sencillamente fue una confabulación entre Moscú y Washington, en última instancia un juego, además con una sola portería.

 

- Pero el mundo bipolar ya no existe, la Unión Soviética como superpotencia ha desaparecido…

- Y actualmente el Occidente de nuevo se acerca al umbral de la crisis cuyas proporciones, posiblemente, superen, los resultados de la Primera Guerra Mundial. Y, por cierto, la destrucción de la Unión Soviética, que a primera vista parece la victoria de Occidente, representa en realidad un durísimo golpe contra el orden mundial. Porque justamente la Unión Soviética proporcionaba a Occidente un seguro y se colocaba como un obstáculo en el camino de los

movimientos revolucionarios que podían socavar y posiblemente derrumbar este orden mundial (Che Guevara, por ejemplo, era perfectamente consciente de este papel de la URSS – N. del T.). O sea que la Unión Soviética de hecho no aprovechó a toda una serie de circunstancias favorables para destruir el sistema capitalista occidental – después de Vietnam y cuando comenzó a derrumbarse la estructura de la OTAN en Europa – junto con los acontecimientos de 1968 en Francia, la revolución de 1974 en Portugal – todo ello fue bloqueado por la URSS. (Hacia 1974 quedaba claro que la URSS había ganado la “guerra fría”, pero el Politburó se asustó ante tal perspectiva y no quiso forzar la victoria. Por un lado, los dirigentes soviéticos temían que la situación mundial derivara en el caos y, por el otro, no querían quedarse a solas con China. Posteriormente el segmento soviético de la corporatocracia mundial y parte de la nomenklatura dirigente pasaron de la “convergencia” con Occidente a la rendición consciente, abandonando todo compromiso ideológico – N. del T.). Y en actualidad la Unión Soviética ha desaparecido, desestabilizando la situación mundial general. Por lo que en mi opinión a Occidente le espera una reestructuración muy seria. Incluido el reformateo de la Unión Europea que difícilmente podrá sobrevivir en su forma actual…

El caso es que ahora el Occidente y todo el mundo vive la fase inicial de la transición de una formación socio-política a otra. Porque se ha acabado la era del, digamos capitalismo financiero, basado en la división entre la producción y el consumo a nivel global. Cuando en una parte del mundo se concentra el consumo, y en otra la producción barata. Todo ello organizado y protegido por el sistema del crédito especulativo. Esa forma del capitalismo financiero, de consumo, está agotada y se acaba. Mientras tanto, los Estados Unidos como el país, basado en el capitalismo liberal, ejerce de gendarme mundial. Los EE.UU. por lo tanto representan un obstáculo para dar el siguiente paso histórico. Hacia una nueva formación político-económica que se basará en otros principios totalmente distintos.

 

- ¿De qué formación se trata? ¿Cuál será su base?

- Se trata de la economía postconsumista, que se basará en el retorno de algunas prácticas propias de las formaciones anteriores. En particular ciertas formas del neofeudalismo y la coacción de las personas, sacada fuera de la esfera económica.

 

- ¿O sea que volvemos a la Edad Media?

- Se puede decirlo así. Pero en una nueva etapa, de alta tecnología. En resumen, los Estados Unidos representan un obstáculo para esta transición histórica y serán barridos por esta ola histórica.

 

- ¿Y cómo se imagina la transformación de la Unión Europea, cómo será la nueva Europa?

- Europa se liberará del papel de gendarme de los EE.UU. Lo cual no significa que Europa de nuevo se descomponga en estados nacionales y pierda la unidad. En esa época postliberal y postconsumista Europa de nuevo será transformada en un espacio unido, pero ya sin el factor estadounidense. Por así decir, sin las consecuencias del año 1945. Ya ahora en Europa se está planteando este tema y creo que dentro de 10 años en general se hará una revalorización de los años 1930-40 del siglo XX y la corrección política, relacionada con la derrota de Europa en 1945, con Núremberg será abandonada. Esa tendencia poco a poco, subterráneamente comienza a dominar en el espacio europeo.

Segundo. Y casi lo más importante. La Europa del mañana no tendrá nada que ver con la Europa de los años 1960-70. En primer lugar porque la élite europea en el espacio posterior al de la UE, me refiero al espacio de Europa unida posterior a la descomposición de la UE, se liberará de todos los compromisos sociales ante las amplias capas populares. Estos compromisos fueron asumidos cuando existía la URSS. Durante la etapa cuando los movimientos sindicales, obrero y comunista ejercían una fuerte presión. Durante la etapa posterior a 1945 cuando los principales partidos de Europa fueron el partido comunista francés y el partido comunista italiano. Mientras que los liberales de Gran Bretaña, que llegaron después de Churchill, atacaron con mucha fuerza a la clase dirigente tradicional, aristocrática – con sus leyes sobre la herencia y demás. Ahora ya no existe el factor que obligaba a las élites a hacer grandes concesiones a las capas bajas. Por eso se van a librar de cualquier compromiso social y de nuevo pasar a una sociedad estamental con los privilegios estamentales. Lo cual prácticamente ya está en el aire.

Es interesante además observar que, al igual que nuestros actuales oligarcas fueron criados en el seno del komsomol y del KGB, igualmente los dirigentes de Europa del mañana hoy se están criando dentro del marco de la estructura que le han permitido tener los EE.UU. Los europeos ya hoy están criando a su burocracia internacional. Pero en el seno de un sistema ajeno, que les fue impuesto de la Unión Europea. Está claro que este sistema ya se está resquebrajando y que desaparecerá.

 

Memorias del futuro

- Díganos, en el caso del derrumbe de la UE, que Ud. pronostica para dentro de 10 años, ese proceso de reformateo del espacio europeo – ¿qué destino le espera a Letonia, a las repúblicas bálticas?

- No excluyo que las repúblicas bálticas pierdan su estatus soberano, porque el estatus soberano seguramente será algo del día de ayer. Porque a Europa la espera el retorno al nuevo feudalismo. Será un sistema de vasallajes y de protectorados señoriales. En este sentido a las repúblicas del Báltico no les espera nada bueno. En primer lugar porque va a haber el retorno de los

estamentos y el Báltico no tiene gran tradición histórica propia, su propia aristocracia. Aunque, por supuesto, está Lituania. Pero en el caso de Lituania se trata más bien de un mito, no se entiende dónde están sus Gediminas. ¿Dónde están los representantes de la nobleza de Rech Pospolita, aquella unión polaco-lituana de hace 500-400 años? Existe en los manuales de historia, pero no en la realidad. Y en la realidad apenas está presente el factor clerical.

En cuanto a Letonia y Estonia allí, como sabemos, la nobleza estaba representada por los barones – caballeros germanos. Y, ciertamente, lo siguen siendo hasta el día de hoy. O sea que con la vieja, tradicional aristocracia de Alemania todo está en orden. Todos ellos se reúnen en los consejos de las corporaciones transnacionales. Todos ellos siguen controlando sus viejos castillos y sus cuentas bancarias y entran el puñado de oro, por así decir, de los señores del mundo. Por lo que en el futuro lo más probable es que a Letonia y Estonia les espera el papel de vasallos dentro del marco de la nueva unidad europea. En cuanto a Lituania, probablemente, su situación sea algo mejor.

Pero debo decir, que la pasada pertenencia a la URSS y la participación en el proyecto soviético – de los mismos tiradores letones rojos en la Guerra Civil – ya coloca al país en una situación desigual dentro del futuro sistema europeo. Así que los bálticos no deberían de esperar ningún plus de este futuro…

 

- Si le hemos entendido bien, se refiere a que la población letona para los europeos son más bien letones soviéticos y ante sus ojos ya no son neutrales.

- Sí, todo lo que se refiere a la Unión Soviética es percibido como elemento del sistema en el que fue interrumpida la sucesión histórica. Es decir la sucesión histórica de aquella nobleza que sigue considerando que es la única con los derechos globales para el dominio mundial. Ahora, en cuanto se vayan los liberales, los nuevos ricos y arribistas – y se irán muy pronto – y cuando pierda su importancia el imperio estadounidense, como el gendarme mundial, donde al menos de palabra se proclama el factor democrático e igualitario, de nuevo serán restaurados los privilegios de las viejas casas. Que, por cierto, existen no solo en Europa, porque el sistema de la vieja aristocracia interconectada se expande por todo el mundo. En él entra, pongamos, la dinastía hachemita de Jordania, la casa imperial de Japón y muchas otras.

La estructura monárquica no se ha ido a ninguna parte, está como en el frigorífico. Se une tranquilamente a la cúspide del capital bancario, la así llamada internacional financiera. Todos comprendemos que ningún príncipe trabaja de camarero, todos están metidos en los consejos de directores de las corporaciones transnacionales, como “General motors”, “Opel” y otras… Si se fija en cuántas monarquías hay en actualidad, descubrirá que muchas. En realidad, la mitad de los países que podamos señalar en el mapa resultarán ser

monarquías: Bélgica, Holanda, Escandinavia. Y en Alemania todas las dinastías están en su sitio. Claro que se trata de una república federal, pero a quién le importa. La casa real bávara está al completo. Y lo que se dice “vivita y coleando”. La casa real de Wurtemberg, todos esos archiduques de Sajonia y de Westfalia, todos están ahí. Todos están ocupados. En los demás países del mundo no europeo, tenemos la casa real Libia, la casa real Egipcia, todas están, por cierto, refugiadas en Europa y esperan su hora.

 

- Díganos, dentro del marco de lo que Ud. llama el neofeudalismo, ahora estamos hablando de la resurrección del Imperio Otomano, que está resurgiendo ante nuestros ojos – ¿tal vez muy pronto veamos al sultán?

- El caso es que ya en actualidad a Erdogán le llaman el sultán electo. Ya hoy en día él se ve en este papel. Se considera como tal. Le conozco personalmente, rezamos juntos en la mezquita – y he visto como dejaba que la gente le besara las manos. Eso fue todavía antes de que se convirtiera en el presidente, por entonces era el alcalde de Estambul – y ya le besaban las manos. Aunque eso en realidad va contra todas las normas islámicas. O sea que se comportaba como un bey, un pachá y no como un musulmán hermano.

 

Rico, pobre…

 

- Señor Dzhemal, Ud. decía que los programas sociales en Europa Occidental se irán recortando. Y ya se están recortando. Ciertamente, ya no existe la Unión Soviética, no hay competencia ideológica. Pero de momento en Letonia existe la esperanza de que simplemente estamos algo atrasados con respecto a Occidente, que pasará un poco de tiempo, avanzaremos y también tendremos buenos sistemas médicos y subsidios dignos. Pero, posiblemente, no seamos más que la vanguardia de la nueva realidad social. ¿Tal vez, en los territorios como el nuestro se está ensayando este futuro sistema social?

- Claro, con ustedes son menos considerados. Mientras que en Occidente aún existen restos del movimiento social. Allí todavía existen sindicatos, movimientos estudiantiles, a la calle salen centenares de miles de personas. En las condiciones actuales los burócratas europeos no están preparados para arriesgarlo todo, es decir para causar la explosión social. Pero ya se están preparando para esta explosión, para estar bien armados. Es por lo que están desmontando las estructuras sociales, creadas durante el enfrentamiento con la URSS, no de golpe, sino poco a poco. Pero se debe decir que el terreno ya está preparado, hoy el uno por ciento de la población posee el 90 por ciento de las riquezas mundiales.

Veamos cómo ha transcurrido este proceso. En 1920 el uno por ciento de la población mundial poseía el 40 por ciento de las riquezas mundiales. En 1970, después del medio siglo de la presencia de la URSS, el uno por ciento poseía tan solo el 20 por ciento de las riquezas. Por lo que la competencia con la

Unión Soviética les había obligado a reducir el porcentaje del control sobre las riquezas mundiales el doble. Pero hacia 1990 este porcentaje de nuevo comenzó a subir ¡y en actualidad el uno por ciento de la población mundial posee… el 90 por ciento de las riquezas mundiales! Lo cual quiere decir que en actualidad el uno por ciento de la población de la Tierra mantiene unas posiciones materiales-financieras mucho más poderosas que en 1920, cuando el poder soviético apenas acababa de aparecer, es decir que en comparación con los principios del siglo XX, monárquicos, capitalistas etc. – el uno por ciento de hoy ha reforzado sus posiciones el doble…

Por eso hoy el papel de las repúblicas bálticas en Europa se diferencia poco del papel, por ejemplo, de los serbios, que se han convertido en los inmigrantes interiores y también trabajan para la Unión Europea. Se diferencia poco del papel de los rumanos. Se trata de Europa periférica con el estatus rebajado, con el nivel rebajado de reconocimiento, que sufre la explotación del factor humano. En la práctica poco se diferencian los habitantes chabolistas de la India de los sin hogar de París. Pues en realidad a la verdadera nobleza y al capital bancario les da igual dónde vivan los parias. Para ellos el espacio europeo forma parte de la sociedad global. Hay que decir que este sistema semicolonial en Europa se estuvo expandiendo con la ayuda y apoyo de la nobleza periférica, local. Que tuvo lugar, lo mismo que en su día en la India y otros lugares, la confabulación entre la nobleza europea y la periférica.

Y como resultado, naturalmente, este puñado de oro, este 1 por ciento no piensa compartir los beneficios, no hay motivos que pudieran obligar a la nueva élite a compartir ahora algo con los de abajo. Claro que los programas sociales se van a cerrar. Ese será el futuro de Europa. Nada hace pensar lo contrario.

 

 

Parodia del incendio de Reichstag

 

- Señor Dzhemal, hace diez años cuando le entrevistamos y todavía se empezaba a hablar sobre el peligro del terrorismo islámico, de repente Ud. nos dijo que no existe ningún terrorismo islamista, que no son más que juegos de los servicios secretos de los EE.UU…

- En realidad ahora lo veo un poco distinto. Veamos, por ejemplo, los últimos acontecimientos de Boston. Las incongruencias son demasiado evidentes, por lo que no cabe valorar las explosiones en Boston más que como una representación. Representación con diferentes candidatos para el papel de los organizadores. Al principio fue detenido un súbdito saudita al que luego soltaron. Como resultado escogieron a los hermanos Tsarnáev con los que desde hacía tiempo trabajaba FBI, pero salta a la vista que los hermanos Tsarnáev no participaron en la organización del asunto, que todo fue organizado por ciertas fuerzas internas. Yo creo que luego, en un momento x, se desenmascarará esa operación de Boston, lo cual hace falta, seguramente, para comenzar la revisión de las conclusiones oficiales con respecto al 11 de septiembre. Es decir, que desde mi punto de vista, hay en marcha una ofensiva contra los neoconservadores, contra el Partido Republicano. Creo que muy pronto se planteará la cuestión de que el establishment político de los EE.UU. participó en todas estas operaciones especiales, que hicieron posibles las guerras en Afganistán e Iraq.

 

- Ud. dice que son los objetivos de política interior. Pero todavía antes de que fueran nombrados los sospechosos, Ud. había escrito en su artículo que lasacusaciones necesariamente se volverían contra el islam. Y, ciertamente, así ha sido. Y no solamente contra el islam, sino contra Rusia, el Cáucaso, Kazajistán y Kirguisia, o sea en realidad contra el marco de la Unión Aduanera…

- Sí, pero verá, en este asunto tan grande, muy de representación, participan muchas fuerzas, cada una con su propio orden del día. En mi opinión, en primer lugar los organizadores se proponen como objetivo la completa desacreditación de la máquina administrativa de los EE.UU. Porque han programado tantas incoherencias y han dejado tantos cabos sueltos que a la hora del juicio el asunto no se va a sostener.

En lo que se refiere a otras fuerzas, se proponen otros objetivos. Las fuerzas que llevan a cabo la investigación claro que utilizan a los Tsarnáev para la temática antirrusa. Surge la pregunta ¿quién los había enviado a Rusia? ¿Por qué Rusia no puso objeciones? Por qué Tamerlán ha pasado medio año en Rusia – cuando para un checheno que vive en el extranjero, viajar hasta Dagestán y vivir allí tranquilamente es prácticamente imposible. Hay muchas partes oscuras, misteriosas.

 

- Recordemos que cuando se derrumbaron las torres gemelas el 11 de septiembre, Putin fue uno de los primeros en apoyar a Bush. Hubo incluso un episodio de amistad entre Rusia y los Estados Unidos, de colaboración. Ahora en Boston ha sucedido un acto terrorista análogo, pero no se ha logrado recuperar algo parecido a aquella amistad…

- En primer lugar, Putin apoyó a los republicanos para distanciarse de la Familia, de los demócratas (“Familia” llaman en Rusia al segmento de la nomenklatura, ligado a Yeltsin, que se puso bajo la tutela de la pareja Clinton para llevar a cabo la privatización y la restauración del capitalismo en Rusia – N. del T.). Dado que precisamente la privatización, Yeltsin, Familia, estaban estrechamente ligados a la época Clinton. Todo aquello quedó desacreditado. Así que Putin buscando ensanchar la posibilidad de maniobra apostó por los neocones, los republicanos. Exactamente por eso en contra de las evidencias se puso a apoyar la versión de Bush y su proyecto. Pero hoy en la Casa Blanca se encuentra el continuador de la causa demócrata. Ahí se sienta Obama. Y es, digamos, que todavía más cosmopolita de lo que era Clinton. Obama en mucha mayor medida está relacionado con las fuerzas no estadounidenses o extraestadounidenses que cualquier otro demócrata antes de él. Por eso no tiene ningún sentido correr hacia él con saludos para alguien que ha estado 10 años trabajando con los republicanos.

 

- Pero después de la caída de las torres gemelas y la acusación contra los musulmanes los Estados Unidos tuvieron las manos libres e introdujeron las tropas en Afganistán. Si la acción terrorista en Boston es una operación especial similar ¿hasta qué punto desata las manos a los EE.UU. en sus

relaciones con Rusia, con Cáucaso? Por ejemplo, la ex-gobernadora de Alaska Sarah Palin hizo el llamamiento para bombardear a Chechenia, aunque la confundió con Chequia…

- Lo de Sarah Palin no fue más que una anécdota. Con respecto a lo de desatar las manos. Los acontecimientos de 2001 y los recientes de Boston son especularmente opuestos. Boston es una parodia de lo que ocurrió hace 12 años. Mientras que los acontecimientos de 2001 fueron por su esencia se podría decir que el incendio del Reichstag 2. Lo mismo que el incendio del Reichstag, la destrucción de las torres gemelas había permitido reformatear el campo del derecho dentro de los EE.UU. Fueron suprimidas multitud de garantías que ofrecía la Constitución de los EE.UU., de hecho los Estados Unidos fueron convertidos en un estado policial. Todo ello pasó con mucha velocidad, como una apisonadora, sobre el país que eran los EE.UU. anteriores al 11 de septiembre de 2001.

 

- Ud. habla del “estado policial”. Curiosamente, cuando pasó lo de Boston, los parientes estadounidenses de Tamerlán Tsarnáev asustados renegaron de él, incluso redactaron una declaración oficial que leyeron ante las cámaras. Luego habló una muchacha, en representación de la comunidad musulmana local – y con voz temblorosa también renegó de los hermanos Tsarnáev. Lo cual recordaba mucho cómo en 1937 en la URSS los hijos renegaban de los padres, cuando en público se leían las declaraciones: “Reniego de mi padre, porque es un enemigo del pueblo”. Cuando en Rusia ocurrían actos terroristas similares, mostraban a los parientes de los terroristas en Daguestán, en Chechenia – nadie renegaba de sus hijos. Es incluso imposible imaginarse algo así. ¿Qué ocurre hoy en los Estados Unidos?

- Sí, los estadounidenses están asustados. Pondré un ejemplo. Después de que comenzara la así llamada búsqueda de Dzhajar Tsarnáev, las cien millas cuadradas de Boston, junto con los suburbios fueron prácticamente sellados. Sellados por la operación policial. A la gente la sacaban de su propia casa, con las manos levantadas, a punta de metralleta, y registraban sus casas. Es decir que se pisoteaban directamente todos los derechos constitucionales de los ciudadanos estadounidenses. Y a escala de una ciudad entera. Algunos observadores, incluidos tan serios como Paul Craig Roberts, quien fuera el editor de Wall Street Journal, escribieron con respecto a lo que pasó en Boston, que ni siquiera el rey Jorge, quien combatió a la revolución estadounidense, se hubiera podido permitir dar una orden semejante a sus casacas rojas – llevar a cabo la operación con registros en el espacio de cien millas cuadradas como la que acababa de realizar la seguridad nacional de los EE.UU. Es decir que el país ha cambiado radicalmente en los últimos años.

 

Misión en Kabul

 

- Señor Dzhemal, recientemente Letonia ha enviado a Afganistán un grupo de soldados de turno. En su día nuestros chicos letones lucharon en Afganistán con las tropas soviéticas. Ahora están luchando en el mismo país pero encuadrados en la OTAN. Entonces la consigna era cumplir el deber internacionalista, ahora es defender los valores democráticos. Díganos ¿existe alguna diferencia fundamental en los objetivos para los cuales fueron destacados las tropas soviéticas y ahora los de la OTAN? ¿O se trata del mismo fenómeno?

- Sí, existe cierto paralelismo. Sin embargo en Afganistán las tropas soviéticas y las de la OTAN no hacían exactamente lo mismo. Las tropas soviéticas entraron en Afganistán para prevenir lo que luego había pasado. Es decir la invasión de Afganistán por pare de Occidente. Porque fueron provocadas. Porque los servicios secretos de los EE.UU. lograron convencer al Politburó que iban a entrar allí de un momento a otro. Y provocaron a la Unión Soviética para dar el paso correspondiente. Y como resultado lo de Afganistán enterró al poder soviético. Es decir que se había convertido en una de las causas principales de la crisis interna del imperio y de su hundimiento. Pero debo decir, que Afganistán en cierta medida también representa la tumba de los EE.UU. y de la OTAN. Si no es tan evidente es porque están utilizando los enormes recursos de los medios para ocultar este hecho. Pero sé una cosa: los talibanes se han negado a negociar con los Estados Unidos de Norteamérica y dijeron que mientras un solo soldado extranjero permanezca en el territorio de Afganistán, no hay nada de qué hablar.

 

- Díganos, en general ¿qué han ganado y qué han perdido los Estados Unidos con la invasión de Oriente? Con la ayuda de las tropas, como en Afganistán e Iraq, o de las revoluciones de color…

- Únicamente han perdido. Después de 12 años de terribles esfuerzos que han causado tres millones de víctimas, el Occidente hoy se encuentra en una situación mucho más crítica y mucho más débil que a comienzos del 3 milenio.

Y en segundo lugar, como resultado de estas guerras los Estados Unidos han quedado desacreditados como el país que desea el bien a la humanidad. O sea que cuando ahora dices que tu objetivo es luchar contra la dictadura de los Estados Unidos de Norteamérica, todos asienten, diciendo – sí, comprendemos que es el imperio del mal. Hace doce años hubiera sido imposible, aún no era tan evidente para todos. Es decir que los EE.UU. han perdido la reputación. Miren como China cuida hoy su reputación de un estado pacífico. Por ejemplo, Australia que había permanecido intacta hasta la llegada de los navegantes ingleses, en el siglo XVIII, para China, que representaba un tercio de la economía mundial, como hoy, no le hubiera costado nada descubrir y colonizar este país. Pero la reputación del estado que no lleva el mal al mundo es muy importante y tiene mucho valor.

 

Triángulo Rusia, China, Irán

 

- Hace diez años en la entrevista para nuestro periódico Ud. había pronosticado que si los Estados Unidos bombardeaba a Irán, la siguiente sería Rusia. Ud. creía que la guerra entre los EE.UU. y Rusia era inevitable. ¿Ha cambiado de opinión en cuanto a la sucesión de los hechos o la inevitabilidad de este proceso? En cualquier caso, sobre el gran tablero del ajedrez mundial ahora vemos otra partida – Obama cree necesario rodear con las bases militares a China. Y de una manera sorprendentemente rápida se reaniman los conflictos que antaño China mantuvo con los estados vecinos…

- Existe el triángulo – Rusia, China, Irán – que en actualidad está retando a los EE.UU. Pero no es porque esté retando a los Estados Unidos y a Occidente como al reino de la oscuridad y porque luche por todo lo bueno y luminoso. Sino simplemente porque la propia existencia de semejante estructura independiente ya es un reto inaceptable para Occidente. Es inaceptable la toma independiente de las decisiones políticas por parte de los países que se apoyan unos a otros en este triángulo. Por ejemplo, la aprobación de la resolución contra la invasión extranjera de Siria a través del Consejo de Seguridad. Por eso hoy el principal objetivo de los Estados Unidos es romper este triángulo y neutralizar a cada uno de sus vértices. Pero desde el punto de vista de los EE.UU. el principal peligro en la actualidad está representado por China.

 

- Es decir que la sucesión de los turnos sí ha cambiado a lo largo de estos diez años. Ud. creía que el primer candidato para el bombardeo sería Irán…

- La situación cambia de manera dinámica. Hace diez años Rusia, China e Irán no estaban tan coordenados como aliados. Por entonces, lógicamente se les podía golpear uno por uno. Hace diez años China estaba mucho más atada a los Estados Unidos, porque estaba atada a la exportación para el mercado interno de los EE.UU. Dependía completamente del producto consumido en los EE.UU. y producido en China. Mientras estos países no estaban reunidos en el triángulo, sino que actuaban cada uno por su lado, era más lógico golpearlos por separado. Ciertamente, comenzar por el eslabón más débil, es decir primero Irán, luego Rusia, porque entonces estaba débil, y luego ya ir a por China. Dado que China aún era necesaria para los Estados Unidos en calidad del taller mundial, productor de mercancías.

Hoy la situación ha cambiado. Rusia, China e Irán representan ya una figura geométrica perfilada, atada – por eso es imposible atacarlos. Resultó imposible incluso atacar a Siria, que tan solo es la aliada de Irán y de Rusia. Porque además del propio triángulo, cada uno de sus lados tiene sus aliados. Irán tiene a Siria, China a Paquistán, Rusia a Kazajstán. Como resultado ya tenemos un grupo de países. Y podemos observar una serie de acciones contra ellos. Por ejemplo, Paquistán sufre ataques de los “drones”. En Paquistán aumenta la situación crítica, mañana podrían asumir el poder los militares nacionalistas, lo cual favorecería a los EE.UU., porque obligaría a India a jugar contra China, del lado de los Estados Unidos. También en Asia Central ocurren determinados sucesos: allí los EE.UU. han optado por cambiar los regímenes existentes… Se trata de la lucha contra los aliados del triángulo Rusia – China – Irán.

 

- ¿Díganos qué opina del destino de Siria? ¿La situación de la guerra civil permanente no puede durar eternamente?

- No, no puede. En mi opinión, en actualidad a la oposición siria solo la apoyan Turquía, Qatar y Arabia Saudí. Occidente de hecho ya se ha salido del apoyo a la oposición. Creo que Asad está ganando. La guerra civil en Siria se va a acabar y, lo más probable es que estas fuerzas se vayan a otro sector.

Y les diré otra cosa – los actuales musulmanes de Europa son un destacamento muy importante, aquí se elaboran las opiniones que ejercen influencia sobre los países tradicionalmente musulmanes. Recordaré que gran parte de la oposición radical que, por ejemplo, había regresado a Túnez o Egipto, es la oposición radical que estuvo en la emigración precisamente en Europa.

 

Hacia la nueva orilla

 

- Señor Dzhemal, en esta gran partida de ajedrez, de la que estamos hablando ¿de qué lado le recomendaría situarse a Letonia?

- Eso lo tendrán que decidir ustedes. Debo decir que la confrontación continuará. Pero Occidente se encuentra en el umbral de una gran crisis. Se acaba el período histórico en el que los Estados Unidos fueron el eslabón central. Nos estamos aproximando al sistema para el que ya no hace falta el mercado, y para la élite mundial van a sobrar enormes masas de la población, gran cantidad de mano de obra sobrante. Esto ya pertenece al día de ayer. Para la élite mundial aproximadamente el 80 por ciento de la población actual representa simplemente un lastre, del que habrá que deshacerse. Porque no hay recursos para todos.

Y si no es por la futura Rusia, este 80% no tiene ninguna posibilidad. Rusia no puede existir más que como la abanderada de la libertad para el mundo entero. Si el enfrentamiento continúa, será el variante bueno. El malo será si el Occidente logra partir a Rusia en varios trozos y estos trozos se pondrán a vender sus recursos naturales directamente en el mercado mundial, y serán controlados por las compañías militares privadas, que con sus helicópteros sobrevolarán pongamos Kémerovo, Novosibirsk, Ekaterimburgo etc. Será una mala variante. En este caso habrá pocas esperanzas para la humanidad. O ninguna. Porque sin Rusia la resistencia será más bien efímera y podrá ser aplastada con los recursos de los que disponga el gobierno mundial. En cuanto

a las repúblicas del Báltico, creo que su población va a repensar muchas cosas y se dará cuenta de muchas cosas, creo que, al menos los letones, tienen recursos intelectuales suficientes. Este intelecto es suficiente para ver de manera crítica la situación a la que actuales repúblicas del Báltico están llegando.

 

Geidar Dzhemal (n.1947, Moscú) es teólogo del Islam revolucionario, filósofo, presidente del Comité Islámico de Rusia (Islamkom.org), activista político y social. Cofundador de Unión Internacional – Intersoyuz (interunion.org), miembro de la coordinadora del Frente de Izquierda – Levi Front (Leftfront.ru).

 

Fuente: http://www.ves.lv/vesti/

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